Museo dell'Arte Contemporanea Italiana in Esilio

MUSEO DELL'ARTE CONTEMPORANEA ITALIANA IN ESILIO

Il progetto ideato da Cesare Pietroiusti, in collaborazione con Alessandra Meo, Mattia Pellegrini e Davide Ricco, intende raccogliere su tutto il territorio italiano opere realizzate da personalità singole o collettive che svolgono attività creative sorprendenti, eterodosse, fuori dai circuiti della comunicazione mediatica.
Il Museo non avrà una sede fisica fissa: concepito come entità nomade sarà esiliato presso istituzioni museali e associazioni culturali estere.

venerdì 4 novembre 2011

Pensando l'intervento a Trastevere 259_ Giuliano Nannipieri

A Roma sono stato cattivo o almeno mi sono sentito tale, ( e non mimo le roussoviane confessioni) come al solito invidioso, e inadeguato: soggetto ad una sorta di rancune di casta. – ho pensato ad una svariata serie di interventi- e anche ad interventi “aggressivi”- che in un parte vi ho comunicato. Tuttavia la sensazione che avevo e che in una certa misura mi resta, è quella di un non più necessario per me operare nell’arte, nei contesti preposti ; come a dire che un tempo mi era vitale testimoniare l’urgenza di un altro mondo, rispetto all’ufficialità dei percorsi e allo stretto connubio di questi con il mercato, testimoniare un lavoro, il cui valore non risiedesse nel costo e nella vendita ma nel portato emotivo, evocativo, nel suo statuto appunto di testimonianza che in quanto tale doveva essere accolta, ESposta.
Ricordo di come una volta, credo nel ’97, in occasione di un’”Arte all’Arte”, manifestazione a cura di Angela Vettese, io sia andato fra il pubblico itinerante, vestito con una gonna rosa a fiorellini, una camicetta a fiori più grandi (delle calle), ed un cappello piccolo militare. Sono andato a vedere le opere, camminando, con ai piedi sandali stretti, da bambina : ho comminato fino a sanguinare, fino a far aprire sopra ai talloni delle abrasioni così larghe e profonde da finire in ospedale. Ricordo il dolore, e di come molti vedessero il lato comico della situazione ma non avvertissero minimamente quello che in realtà era il lavoro: il dolore infertomi dai sandali, l’apertura delle ferite- scegliendo in molti appunto di fermarsi piuttosto a notare l’idiozia di una tale presenza, dell’inutile ESibizione. Ricordo di essere stato sostenuto da quel dolore, e dalla ferocia anche delle considerazioni diversamente dolorose” lei è fuori luogo” ” è patetico, pazzo” .Ed io : “questo è rendere la pazzia , qualcosa di utile.. nell’esporla, nel darle un contesto adeguato, che sono io a scegliere”. Il giorno successivo nonostante le prescrizioni mediche: mi sfascio e torno alla manifestazione, mostro le ferite, ( indosso un saio, da frate) cammino su una lunga scala precedendo gli altri, ostendo le lesioni.”Non posso crederci, sono ovviamente false o lei e veramente un pazzo”. Ho pensato che quel lavoro sul mio dolore d’essere uomo, piuttosto che bambina, o fiore o insetto o santo , il dolore d’essere definito da altri, e comunque anche l’autodefinirsi come bambina, fiore o santo, mi lasciava, mi avrebbe lasciato sempre inadeguato alla vita, tuttavia il rifugio, anche occasionale, nell’arte o quantomeno l’illusione che quel contesto offriva come luogo di ripattegiamento categoriale , da altri preclusomi, in realtà era necessario lo rivendicassi a qualsiasi costo, pur ridotto nel complesso a tallone d’Achille, a mero punto debole.
. La gabbia del corpo, (anche sociale) e l’invidia come motore verso l’altro, ciò che non si è (come potremmo esserlo?), il corpo come serie di leve (come evaderne), ed il desiderio di poter creare vita, come una donna..
Quando è nata mia sorella devo aver capito che con mia madre il rapporto non era paritario, in modo definitivo, lei era una porta, da cui potevano uscire altri,( una divinità che evocava da se la vita) filogenesi e ontogenesi si sovrapponevano nel farmi ripercorrere complessi d’inferiorità maschili ed invidie ataviche (* complesso compensativo del demiurgo). Mia sorella poteva a sua volta farsi porta, accesso creante, avrebbe potuto scegliere di esserlo. Mi è apparsa la catena potente delle donne: da una ne esce un’altra e così via senza soluzione di continuità. Accelerando il tempo, in una visione ipotetica a distanza, vedremmo rapidamente da donna uscire donna, creanti un continuum di senso e veder morire di lato creature senza seguito, rami morti, resecati, gli uomini. Si sono dati questi ovviamente il compito di riempire il loro vuoto, l’impotenza creatrice, con case, opere *, cercando al contempo di controllare, umiliare, imprigionare, nel loro complesso d’inferiorità dissimulato- ma costitutivo del maschile - le donne.
(Subire quello che si ha o provare a inventare ) Mi è sembrato che un esercizio ripetuto di cura mi mettesse nella condizione di fuoriuscire dall’invidia come già forse ero fuoriscito (sentendone tutta la disperazione) dalla postazione maschile dell’opera a tutti i costi, dal valore dell’ “avitale” creatura, della quale poter far commercio e sulla quale attivare l’esercizio e la pratica del valore economico- la metafora alchemica del trasformare la merda in oro mi sembra abbia al proprio fondo il rancore di un universo maschile incapace di accogliere la propria impotenza a far vita, e forse l’unica trasformazione auspicabile è quella del rancore in accetazione e infine in amore e cura)… Così sono diventato maestra. Come a dire che l’ingresso nella scuola mi ha garantito un fare continuo, performativo, di cura, un continuo operare senza opera, liberandomi in parte dalla condizione di solitudine, solvendomi dall’esigenza di” testimoniarsi” in contesti preposti (non invitato, non previsto), dall’urgenza di editare necessariamente la propria (mia) non accettazione di corpo e corpus, a tutti costi. Il dolore dilata il tempo, mentre il piacere contrae, fa scorrere velocemente. Stare nel contesto dell’arte con dolore era ovviamente dilatarne l’esperienza , il valore salvifico, alterante, di possibile, di non necessario, di scelto.
Cosa ci faccio ora io qui? Con voi ?, a Venezia forse. La struttura oppositiva che mi sta ancora al fondo, che mi ha portato ad andare dove non mi volevano, mi sollecita ad alcune visioni, pensieri di lavoro di cui vorrei parlare

. La scuola mi ha permesso di lavorare con donne, Nella scuola primaria italiana, prima della riforma, le donne ci hanno offerto un modello di collaborazione del tutto nuovo nell’orizzonte di senso in cui ci muoviamo- infatti nella scuola primaria, dal 70 ad oggi, ci sono stati pochi uomini e visto il contesto, noi presenti, abbiamo avuto l’opportunità di farne esperienza dal punto di vista sociale, paradossalmente come maestre - il modulo di lavoro -composto da donne, almeno 3, paritariamente presenti anche come tempi, con le bambine ed i bambini- è stato a scuola e per la società un importante modello formativo, di donne che cooperano, non monocratico, non matriarcale. Ora questo governo cancella, uno dei grandi risultati della rivoluzione femminista in Italia questo modello, pluralista e femminile, riproponendo il maestro unico, e lo fa fare ad una donna, come ministro, rappresentante, simulacro di uomini, a tutto vantaggio di un ritorno patriarcale di cui mi sembra pochi abbaino parlato, comunque non sottolineando a sufficienza la perdita che stiamo subendo. Ne parliamo dall’esilio?

Intanto a Roma ho continuato a pensare alla fragilità, come ad esser esili occorrano contesti protettivi, come quello dell’arte (così dovrebbe essere), ho pensato a come questa categoria, per un bambino, una bambina esili, sia, appaia una categoria che protegge e giustifica, un rifugio (come la lettura, come il disegno…) ; ho visto Matarrese bambino, piccolo (in proiezione) rifugiarsi e ribellarsi nell’arte e poi scoprire anche qui la protervia da cui fuggiva, penso a Merz che duramente gli propone di fare l’assistente, o alla crudeltà del sistema gallerie..
Nelle varie occasioni in cui mi ha visto in azione, Merz mi ha ripetuto” tu non sei un artista, sei un ballerino”. Credo alludesse appunto alla mancanza di forza che secondo i suoi parametri sprizzava dal mio lavoro, all’uso sempre costante del corpo per fare, e poco o nulla ottenere.

Una volta a Siena a palazzo delle Papesse, tagliavo in spicchi delle mele e le infilzavo, con un ricurvo ago da materassa, lungo uno spago, a farne una collana che si dipanava via , via, dalla mattina, al pomeriggio inoltrato.
Un'altra volta tagliavo a fette sottilissime pani di creta cruda e pavimentavo l’ingresso alla collezione permanente del Pecci. Piastrelle che rapidamente, dato il caldo e il calpestio dei visitatori si trasformavano in polvere.
Altre volte esposto nudo (in front off) davanti alle opere di artisti molto quotati quali Richter o Arachi,quale extracomunitario al sistema dell’arte………ho passato l’aspirapolvere davanti ad un opera di Tapies… facendo infuriare il direttore del museo; nel 2001 mi sono steso, coperto di piante ai giardini della Biennale, aiuola ( aion), evocavo l’emancipazione dal lavoro, con l’ipotesi di un'umanità fotosintetica, capace di nutrirsi appunto stando semplicemente al sole. (Dal ’95 mi sono posto il problema del restauro della performance attraverso la parola “dal corpo al corpus and back again “)

Così con l’ingresso a scuola ho sentito meno urgente la presenza del corpo (da esporre, con cui operare). Invitato ad una mostra nel giardino della facoltà di Architettura a Firenze ho inviato da casa delle foglie, cadute da una pianta d’appartamento in casa mia – raccolte dal pavimento-; le ho spedite perché fossero liberate in quel giardino ed i visitatori niente sapessero di questo inedito trapianto, passassero inconsapevoli, vuoti d’artificio .
Devo dire che mi sono anche sembrati meno idonei, i luoghi deputati all’arte: anapittura è il lavoro di chiusura, più esplicito, almeno così penso, del mio bisogno di accettazione contestuale gratuita : pagare per esistere, per togliere gocce di vernice, pagare per “documentarsi” e farsi, tradursi in Pubblicità. Cessare d’esistere, riconoscere l’economicizzazione estesa al fondo di qualsiasi istanza comunicativa, “pagare per essere ascoltati”.

Ho ipotizzato per lo “studio” vari lavori – mi sembra comunque ancora irragionevole il vostro interesse,vista la forza comunicativa del progetto, la cui bellezza non ha realmente bisogno di “artisti”, di ESiliati, la cui presenza virtuale mi pare al fine più che sufficiente.

Parlare delle diverse possibilità d’intervento: usare il bagno e far entrare una persona alla volta- gabinetto:
Cosa si trova?
Sono nella vasca, (immerso)
la vasca può essere piena d’acqua ed io vestito- sopra ad un’ asse scrivo o disegno----il tutto finisce nell’acqua, sotto di me ci sono delle monete, io telefono (chiedendo il numero alla persona, oppure usando due diversi telefoni presenti nel lavoro) telefonicamente la invito a prendere una moneta- posso così raccontare due favole con un diverso e diametralmente opposto approccio al corpo : accettazione/ rifiuto)…*…..

Nel bagno c’è solo un telefono appoggiato sul fondo della vasca coperta di monete, chi entra dovrebbe rispondere ed essere invitato a fare ciò che sopra è stato ipotizzato…(in questa versione non sarebbe necessaria la mia presenza a Roma)

*Lo stesso utente può essere invitato a raccontare ad altri le stesse storie, sempre previo pagamento del destinatario ( è ipotizzabile una versione sms delle storie).
Ora questo intervento, che potrei però raccontare, mi appare un operare scollegato, un fare troppo in vitro…una performance che risente di un fondo laboratoriale in cui o è troppo centrale il ruolo del corpo, oppure troppo defilato, non mi sembra sensata per i rapporti interpersonali, d’empatia che fra noi si sono attivati, non adeguata alla sfondo emotivo su cui si costruisce…..avrei bisogno di un lavoro più cooperante ed empatico ( ho paura di deludervi e deludermi; è anche questa una delle ragioni per cui preferirei ovviare e defilarmi) . L’idea della ricerca dei pidocchi, dell’acquisto degli stessi, del contagio mi appare troppo “aggressiva”, sostenuta da un cinismo non adeguato. Sapete che l’invidia ed il senso di inadeguatezza, come il fondo oppositivo, mi hanno fatto ipotizzare interventi clauneschi ed imitativi in cui, travestito da curatrice, provare a schiacciare gli artisti con fare da circo, urlando, inseguendoli, nel modo in cui avviene la catarsi in una farsa circense, oppure liberare davvero nello studio delle pulci, avviare un teatro delle pulci, fare le pulci… ma questi sono drenaggi verbali della mia ansia da esiliato, del mio timore d’esserci in quanto ruolo.
Avrete notato come per Venezia abbia fatto molte ipotesi stando a Roma e ve le abbia comunicate in modo quasi ossessivo.
Quella della vasca da bagno (in alcune della varianti di cui sopra), l’altra delle fialette di urina da liberare (nei bagni-cessi del padiglione) a cura dei visitatori pagati per farlo, la micronizzazione e la costruzione di fialette omeopatiche a partire da altissime diluizioni del mio sangue che possano essere distriubuite e pagate a coloro che le desiderano per la cura di una pervicace inadeguatezza al vivere, oppure un lavoro performativo con un lenzuolo/coperta da me disegnato, “esiliato schermo”, sotto al quale, sdraiato, urinare, cancellandone le tracce, i segni ( da qui telefonare ad un altro cellulare a disposizione degli astanti)…. o ancora dopo averlo disegnato, stando nella succitata vasca, lavarlo, detergerlo o farlo affondare in laguna, scivolando anch’io nell’acqua, immergendomi :Ipotesi che come sapete non mi soddisfano…( e l’esposizione della tesi di laurea, con cui “fuori contesto”, mi sono “preso cura” di me stesso? Mah?…Nella quale spiego anche le ragioni del mio passaggio alla scuola come contesto adeguato di sperimentazione, di cura…….)
Quello che vengo a fare a Roma è un lavoro che ho gia fatto in classe, un sorta di “esorcizzazione”, di normalizzazione, di un’ attività che sta al fondo della cura, del nostro essere umani e primati; lo presento come un laboratorio scolastico, con un andamento che coglie gli aspetti antropologici delle manifestazioni d’affettività e di cura, chiedendo la vostra cooperazione, una partecipazione paritaria….. una specie di festa.






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