All’interno del Museo in Esilio, quale potrebbe essere il ruolo del curatore? Quali nuove pratiche curatoriali potremmo immaginare per non tradire il senso di questo progetto, per non compiere l’assurdo gesto di voler riportare in qualche modo dentro al sistema chi lo rifiuta?
Ho trovato molto significativo che Francesco “Piccio” (Stalker) concluda il suo intervento con questa non troppo ironica considerazione: “il problema sono i curatori...”, e che Chiaralice e Alessandro abbiano giustamente ricordato il legame tra i concetti di “curiosità” e “cura”.
Può il curatore stesso essere un outsider? Operare anche lui, come questi artisti, al margine? Essere eccentrico rispetto al sistema dell’arte? E, se sì, in che modo questo può tradursi in concreto?
Penso al lavoro di Aldo Piromalli, l’artista per e con il quale sto sviluppando la mia ricerca, e mi viene in mente una precisa operazione che lui compie da una decina di anni.
Oltre alle sue opere grafiche e letterarie, che invia a diversi destinatari nel mondo, Aldo spedisce la corrispondenza che arriva a lui da una giovane artista di San Francisco.
Aldo apre le buste (che sempre contengono disegni o prove di stampa in serigrafia), le richiude con nastro adesivo e, senza altro aggiungere, le inserisce in una seconda busta che invia, dopo averla compilata nel suo caratteristico modo, indicando come contenuto “present, cadeau, gift”.
Ricevere, leggere e passare. Inoltrare. Un regalo che ti arriva e che condividi, sotto forma di dono, con altri. Perché per te è interessante.
Certo, questo non ha alcun senso all’interno del circuito artistico istituzionale e nelle logiche della produzione culturale.
[Giulia Girardello]
L'artista spiazza e il curatore impazza. Chissà, può essere un'idea
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