Museo dell'Arte Contemporanea Italiana in Esilio

MUSEO DELL'ARTE CONTEMPORANEA ITALIANA IN ESILIO

Il progetto ideato da Cesare Pietroiusti, in collaborazione con Alessandra Meo, Mattia Pellegrini e Davide Ricco, intende raccogliere su tutto il territorio italiano opere realizzate da personalità singole o collettive che svolgono attività creative sorprendenti, eterodosse, fuori dai circuiti della comunicazione mediatica.
Il Museo non avrà una sede fisica fissa: concepito come entità nomade sarà esiliato presso istituzioni museali e associazioni culturali estere.

giovedì 27 ottobre 2011

riflettendo


sedici.dicembre.duemiladieci
Cari esiliati...
i due incontri di oggi con Piccio degli Stalker e con Fausto Delle Chiaie hanno innescato in me alcune riflessioni.Innanzitutto è stato interessante cominciare a parlare di mercato e di sistema arte. 
A pranzo con Piccio si è anche  parlato della dimensione territoriale dell'artista.Quindi le metodologie che continueranno gli artisti scelti nel proprio habitat mentre vengono esiliati da noi.L'idea di un artista di "quartiere" libero di creare è molto suggestiva.
L'incontro con Fausto è stato tanto freddo (climaticamente) quanto interessante.Mentre raccontava aneddoti e spiegava la sua visione del progetto ha parlato della bellezza di un "museo che si muove".Questo definizione nel mio cervello si è trasformato in "museo nomade" quindi "pensieri e scelte nomadi".Il nostro museo non si muove solo fisicamente come un qualsiasi "museo itinerante" ma soprattutto si muove in un nomadismo di ricerche,personaggi,linguaggi,prospettive varcando ogni giorno confini fino al giorno prima impensabili.
Un museo che si sposta portando un arte senza patria perché non compresa/scelta da istituzioni o non volutamente comprensibile perché chi la crea non vuole farne parte.Insomma questi sono miei svarioni serali non ancora definiti nella mia testa ma sarebbe bello cominciare anche a parlare di più di concetti come esilio,confine,nomadismo,mercato...
buona serata!!
                                                                                           [Mattia Pellegrini]

al telefono con Giuliano Nannipieri

Rischiate di utilizzare come materiale l’artista. Mi schiaccerà dentro procedure di mimesi.
Usate un protocollo di indagine. Indagare le ragioni dell’esilio. SITUAZIONE DELIRANTE… INDAGAZIONE…RICOSTRUZIONE.
Uno è in esilio per necessità dell’opera. E’ ambiguo…io nel mio non mi sento in esilio…MANCANZA DI SENSO. L’assurdo riesce ad esasperare la realtà mostrandola agli occhi umani come qualcosa di deformato, irreale, surreale, finto, buffo.
Differenza tra museo in esilio e collezione di esiliati. Io in che rapporto sono rispetto al sistema, al potere…una CAVIA OSSERVATA? Mi sento un esperimento, sono strumentalizzato dal progetto. Quanto posso interagire in questa cosa. AMBIGUITA’ DELLO STARE DENTRO E FUORI. Attivare la dinamica del paradosso. Ci finisco dentro - Posso creare molti meno danni di quelli che create voi a me.
[Alessandra Meo]

con Andrea Lanini - dicembre 2010

La vera motivazione di quello che faccio è che non posso fare a meno di farlo. Naturalmente questo non vuol dire che non abbia senso”.

Esordisce cosi l’artista nel nostro incontro nel suo appartamento romano, dove le sue opere si mimetizzano familiarmente tra gli oggetti della sua vita quotidiana di professore impegnato a sensibilizzare col suo lavoro gli allievi e al contempo di sorprendere poeticamente con le sue azioni inaspettate un mondo distratto e precostituito.

Come una prostituta generosa, disinteressata, a cosce aperte, senza veli, protetta tuttavia da una invisibile torre d’avorio”, cosi come lo descrive Ida Panicelli, Lanini ha sempre lavorato ‘in strada’, fuori da ogni circuito ed è così che nel 1980 si è fatto conoscere “quando posò un cartello stradale all'esterno della Galleria Nazionale d'Arte Moderna a Valle Giulia, durante la mostra Arte e Critica, con l'immagine dell'Angelus di Millet al posto del segnale stradale. Naturalmente fu usato per appoggiarci motorini, preso per un vero cartello stradale...! Sul retro aveva attaccato una lettera indirizzata a me, in cui si proponeva come 'partecipante esterno' alla mostra”.
Con le sue “invasioni urbane” l’artista destabilizza la percezione quotidiana dello spazio e rilegge la realtà in modo diverso, ironico, provocatorio in modo da includere lo spettatore in maniera attiva, portandolo all’analisi della sua particolare visione delle cose in relazione con le immagini e le visioni proposte dalle singole opere.

Fin dall’inizio Lanini ha cercato “di sottrarre all’arte quell’alone di autorità sacrale e convenzionale che rischia di consegnarla per intero a una percezione precotta”, realizzando oggetti quasi invisibili che andava a sistemare di notte per le strade di Roma, gli “piaceva che qualcuno si accorgesse casualmente di loro, senza il bisogno di un comunicato stampa”.
Quello che voleva ottenere era l’effetto di una specie di APPARIZIONE, caratteristica del suo lavoro che avvolgeva l’opera di tutto il mistero e la sorpresa di cui sarebbe stata privata da una cornice precostituita. “Certo nelle apparizioni e nei miracoli che ho preteso di ricreare, c’ è un sacco di religione e di sacralità, il che sembrerebbe contrastare con una maggiore vicinanza dell’arte a una fruizione quotidiana e dialogante”.
L’idea di un’arte senza più “aura” e la PERCEZIONE DISTRATTA che Lanini attribuisce a un “diffuso pecoronismo” induce l’artista a creare dissonanze nella compagine urbana che non stravolgono ma attentano alla percezione superficiale “Mi divertiva il tentativo di insinuarci dei dubbi, di suggerire delle presenze negli occhi e nella mente di un pubblico di passanti”.
Il concetto di SPARIZIONE “dell’opera già ampiamente presente nel panorama contemporaneo e fortemente indirizzata in senso antimercatista e anticapitalista, per non dire del suo carattere metalinguistico e critico intorno a ciò che veramente sia definibile come arte e cosa no, è forse il carattere più decadente di tutta l’operazione. L’idea che un’opera si consumi e muoia, abbandonata nella città, e torni nell’oscurità da cui è stata partorita è una bella metafora dell’esistenza…”.
Un ultimo elemento dell’azione di Lanini, che conferma la personalità singolare e la magia libera di esplicarsi e colpire, destabilizzando spazio e menti, è il voler rimanere ANONIMO per sganciare l’opera da riferimenti biografici e darle connotazioni più universali
Doveva essere rassicurante per il “pubblico” che comunque qualche autore ci fosse e volesse dire qualcosa. Inoltre ne scaturiva la sensazione che fosse stata la città stessa a produrre qualcosa di nuovo e che lo facesse dentro il suo cuore più antico.
In fondo sono tornato al punto di partenza : far sì che il passato non muoia per eccesso di parrucche e di cornici, continuare a raccontarlo perché non abbia fine.
Sì, lo so è impossibile”.
[Alessandra Meo]

con Francesco “Piccio” Careri, stalker – autunno 2010

 
          F.C.: Mi è piaciuta molto l’idea del Museo in Esilio… ma non l’ho capita! Ora tutti vanno in esilio… la fuga dei cervelli… qui non c’è più aria.

         A.M.: Un’operazione del genere è un’operazione polemica con un tentativo di ricaduta sulla cultura italiana. Il fatto che questo museo esponga all’estero è prima di tutto una presa di posizione, di polemica rispetto ai musei che sono qui. Prendere delle realtà artistiche non riconosciute dal sistema e privare l’Italia di queste realtà è un modo per proteggerle e nello stesso tempo provocare, polemizzare.
          F.C.: Proteggerli da cosa, dal sistema dell’arte? Quindi voi non riconoscete l’arte sostenuta dal sistema italiano? E’ sempre interessante guardare fuori dagli schemi, ma credo sia pericoloso, scivoloso, pensare di prendere realtà artistiche marginali e inserirle in un sistema…non dovrebbe essere questo.

          A.M.: Queste persone sono messe nella condizione di poter scegliere. Si vuole proteggerli da un sistema dell’arte che porta attraverso il mercato ad una stagnazione della ricerca artistica. La tendenza è questa. Il capitalismo in generale acquisisce la critica stessa, la fa diventare un elemento potenziale del mercato, perché serve. Quindi gli artisti che il mercato sceglie, quelli più quotati sono spesso i “migliori”…però quando entrano in una logica di mercato, di pressione la loro libertà di ricerca viene condizionata.
Anche Stalker ha attraversato nelle due direzioni questo confine, che definisce un po’ lo stare dentro e fuori dal sistema dell’arte. Qual è la strategia per rispondere, non cedere all’omologazione e allo stesso tempo di non isolarsi completamente?
          F.C.: Diciamo che nessuno di noi nasce come artista. Quando abbiamo cominciato con Stalker non avevo questa idea negativa del sistema dell’arte , quasi non lo conoscevo. Non mi ero mai posto il problema di dovermi difendere dal sistema. L’operazione è nata come pura necessità di farla. La prima mostra è stata a Milano e chi ci ha inserito nel mondo dell’arte non ci ha fatto paura. Siamo entrati da una strada marginale. Diciamo che noi abbiamo sfruttato il sistema, abbiamo preso più noi che il sistema da noi. Lo abbiamo dirottato quando si poteva. La struttura comune ha paura del gruppo. Il problema sono i curatori…
[Alessandra Meo]

Un museo privo di pareti

Si può mettere in discussione la differenza, all’interno di un museo, fra spazio espositivo e spazio di servizio; si può pensare a un museo il cui spazio di azione sia decentrato, multiplo, mutevole; si può pensare a un museo che sia ‘specchio’ di eventi che accadono altrove, anche molto lontano; infine si può pensare al museo come luogo di incontro reale, di scambio di idee e di esperienze, anche a un livello conviviale, fra gli artisti, altri addetti ai lavori e il pubblico.”
 [Cesare Pietroiusti, in Oreste at the Venice Biennale, 2000]

Esiliati dal sistema, esuli in terra straniera.

In un primo momento si era pensato che il Museo avrebbe dovuto avere la sua sede fisica in un paese straniero - magari l’Albania o la Romania - ed essere ospitato o appoggiato logisticamente da un’altra istituzione. Il pensiero era andato all’Est europeo in considerazione del flusso molto alto di esiliati in Italia, con anche il desiderio di restituire qualcosa a quelle popolazioni che forniscono al nostro paese forza-lavoro e risorse. Valutando però le difficoltà e l’entità delle risorse necessarie a mantenere una sede fissa del Museo, si sta ora considerando di configurarlo come un’istituzione itinerante che potrebbe essere ospitata da diverse altre istituzioni museali, organizzazioni, associazioni, ecc.

           Il Museo sarà curato da un piccolo comitato scientifico diretto da Pietroiusti e composto da almeno tre persone - artisti e curatori - che si riunisce – anche attraverso mezzi telematici - almeno due volte l’anno. Un direttore tecnico-amministrativo, una persona con mansioni di segreteria e ufficio-stampa, nonché alcuni custodi, andrebbero presumibilmente reperiti all’interno della struttura ospitante.

           Per quanto riguarda il ruolo che il Museo dell’Arte Italiana Contemporanea in Esilio dovrebbe assumere rispetto a un museo tradizionale, trattandosi del progetto di un artista, verrà ad assumere caratteristiche flessibili, che mutano nel tempo, che hanno la possibilità di adeguarsi a quelle che saranno le circostanze del momento. “Io posso costruire un museo e lo posso realizzare anche come un museo vero e proprio, col suo staff, il suo direttore e tutte le sue regole – osserva Pietroiusti - ma anche per il solo fatto che sia stato un artista a farlo è come se non fosse un museo ‘normale’. Non è importante l’istituzione museo in sé, quanto l’idea critica che ci sta dietro”.

           Il tipo di valorizzazione che il Museo in Esilio andrà a mettere in atto sarà quindi caratterizzata da un lato dall’aspetto statutario e disciplinare di “museo”, dall’altro si potrà muovere trasversalmente e con agilità dentro e fuori dai margini dei circuiti ufficiali dell’arte contemporanea.

           Per ora.
[Davide Ricco]

Trento - fine estate 2010



Il 15 e 16 settembre 2010 il progetto viene presentato in un workshop presso la Fondazione Galleria Civica di Trento. Vi partecipano, oltre a una ventina di studenti, Daniela Rosi (studiosa e coordinatrice dell’Osservatorio sull’Outsider Art dell’Accademia di Belle Arti di Verona), Roberto Pinto (ricercatore di Storia dell’Arte contemporanea all’Università di Trento) e l’artista Anna Scalfi.
Nel dibattito che nella prima giornata di lavori è seguito alla presentazione dell’idea e dei materiali documentari raccolti sono sorte interessanti riflessioni oltre a vecchi e nuovi interrogativi.
Sono emersi innanzitutto dei filoni, delle tipologie di risultati che si ripetono: azioni di tipo performativo legate a situazioni di profondo disagio psichico o sociale, comportamenti compulsivi che conducono il soggetto segnalato alla raccolta (collezione) metodica e maniacale di oggetti o alla realizzazione di manufatti a partire da materiali di scarto o reperiti in natura, distacco dalle dinamiche sociali e culturali di massa che presenta particolari attinenze con un ambito parapolitico o parareligioso.

Si è passati poi a parlare dei criteri di selezione delle opere segnalate, in vista delle eventuali acquisizioni. Sarebbe riduttivo scegliere l’opera in base alla personalità più o meno eccentrica dell’artista, l’obiettivo non è prettamente quello di indagare le dinamiche psico-sociali dei personaggi in questione: l’attenzione va focalizzata anche sul linguaggio. Non è nemmeno una questione di originalità del mezzo espressivo, non sono affatto bandite la pittura o la scultura in quanto medium tradizionali inquadrati nel “ritorno all’ordine”. Esiste tutto un territorio non indagato abbastanza dalla critica e dalla storiografia ufficiali, non necessariamente un territorio oltre confine, ma un luogo nomade che si muove intorno al margine, al limes del sistema. Nelle pieghe di questa zona è possibile individuare quelle che per un particolare anche minuto rappresentano vere e proprie novità nel panorama artistico italiano, capaci di portare nuova linfa ed energia ad un mondo dove tutto e il contrario di tutto sembra essere già stato detto e fatto.

L’intervento di Daniela Rosi, nel secondo giorno di workshop ha concentrato l’attenzione dei partecipanti sull’Outsider Art.
Dopo aver presentato i lavori di una serie di pazienti in cura presso le cliniche psichiatriche del Triveneto con l’ausilio di immagini e cataloghi (anche qui le opere si possono classificare in una serie di categorie comuni, legate al tipo di disagio di cui è affetto il paziente), ha posto l’accento sulla differenza tra gli artisti “impulsivi”, per i quali l’espressione artistica rappresenta la manifestazione o lo sfogo del disturbo psichico, e chi frequenta laboratori e atelier di art-terapy.
Tra i primi i mezzi utilizzati, i supporti e i contenuti sono risultati particolarmente interessanti sia per quanto riguarda la qualità delle opere che per quanto concerne il livello di innovazione che queste sono in grado di apportare al panorama artistico attuale.
Nella sua ricerca Daniela Rosi non è interessata alla seconda categoria menzionata, ma dal materiale segnalato è parso evidente che alcune produzioni dei laboratori a conduzione sono di grande interesse qualitativo e contenutistico.

Al termine del dibattito è stata effettuata una prova di allestimento delle prime opere acquisite dal Museo dell’Arte Contemporanea Italiana in Esilio presso lo spazio indepositoi, ideato e diretto a Trento da Anna Scalfi e Denis Isaia. I lavori erano un gruppo di collage e disegni di Fausto Delle Chiaie, una serie di piccoli manoscritti e oggetti utilizzati nelle performance da Giuliano Nannipieri e due tappeti in carta e stracci di Andrea Lanini.
Gli studenti che hanno partecipato al laboratorio hanno cercato di attenersi a quello che è il contesto che ha originato le opere da esporre o all’intenzione poetica degli artisti.
Non è stato difficile riprodurre, in un corridoio che da’ accesso allo spazio, il Museo all’Aperto che Delle Chiaie allestisce ogni giorno - salvo pioggia - nello spiazzo antistante l’Ara Pacis a Roma.
Diversi problemi si sono riscontrati invece con le opere di Nannipieri e Lanini.
Le prime, minuscoli “pizzini” su cui l’artista-filosofo livornese ha descritto alcune azioni performative mai compiute - la documentazione, secondo Giuliano, è un’opera a sé stante - sparivano letteralmente nel grande vuoto del capannone. Le proposte dei partecipanti sono state quella di riprodurre i testi dell’artista e quella di utilizzare gli ingrandimenti fotografici - proiettati o stampati - dei foglietti volanti. In entrambi i casi però i ragazzi hanno sofferto l’eventualità di “tradire” le intenzioni dell’artista e vi hanno rinunciato in attesa, magari, di uno schedario in cui archiviare tali materiali.
I due tappeti di Andrea Lanini, realizzati imitando disegni e geometrie mediorientali attraverso la giustapposizione di immagini in fotocopia tratte da articoli di guerra su quotidiani e settimanali, si accompagnano a una stampa fotografica che ritrae l’artista nell’atto di indossare uno dei tappeti davanti alla sinagoga di Roma. Il forte contenuto politico-religioso dei manufatti, confermato dall’azione dell’autore documentata nell’immagine, ha indotto gli studenti a provare a indossare essi stessi il tappeto in questione, ma con effetti forzati e grossolanamente artefatti. Lasciando all’immagine il compito di documentare la performance di Lanini, si è deciso di esporre l’oggetto tenendo conto della sua natura e stendendolo su una pedana poco più alta del pavimento.

La due giorni di lavori si è conclusa con la richiesta di segnalazioni e documentazioni rivolta a tutti i partecipanti, ma soprattutto con un fitto generarsi di nuove domande e con un moltiplicarsi delle strade da percorrere.
[Davide Ricco]



Gli inizi - primavera 2010


“…oppure ho da un po’ di tempo nel cassetto il progetto per un museo in esilio… però quello è un po’ più grosso e da sviluppare. L’idea è quella di cercare in tutta Italia quegli artisti che operano ai margini, fuori dal sistema: nelle cliniche psichiatriche, nelle carceri, in piccoli paesi di provincia, o quegli artisti che volenti o nolenti sono esclusi dai circuiti ufficiali dell’arte contemporanea. Vorrei costituire una collezione da portare in giro fuori dall’Italia.”
[Cesare Pietroiusti, un pomeriggio d'aprile]

Da dove iniziare?
Un account di posta elettronica, un testo standard a cui cambiare solo il nome del “caro” destinatario e il gioco è fatto: centinaia di richieste e centinaia di segnalazioni. Il Museo è in gestazione, indietro non si torna.

Giungono, attesi, i primi dubbi: le personalità segnalate devono essere consapevoli del loro essere artisti? Si intendono indagare le dinamiche culturali, economiche e sociali che determinano lo star dentro o fuori dal sistema o si vuole effettuare una ricerca che verte sulla qualità di opere dalla visibilità limitata?

Si intende svolgere una ricerca e creare un osservatorio o si vuole realizzare un vero e proprio museo? Quali sono i criteri di selezione delle opere segnalate? Le personalità segnalate devono essere consapevoli del loro essere artisti?

Il punto è che non si vuole entrare in diretta polemica con un sistema che soffre la spettacolarizzazione – e quindi lo svuotamento o l’occultamento dei contenuti trattati – e che negli ultimi decenni ha visto risucchiare nell’ufficialità qualunque tentativo di porvisi in contrasto. Si vuole “utilizzare” il sistema, agire nelle sue pieghe, nei suoi vuoti per smuovere le acque e portarvi nuovo humus.

Ogni quesito, dubbio, richiesta di chiarimento, ci spinge, nello strabismo di questa ricerca, a seguire direzioni cangianti, il progetto è in continua evoluzione. Nelle risposte ai nostri interlocutori continuiamo a dire che non abbiamo fissato alcun paletto, il materiale documentario che ci giunge viene visualizzato, commentato e archiviato così come le storie di vita degli artisti segnalati.
[Davide Ricco]