Museo dell'Arte Contemporanea Italiana in Esilio

MUSEO DELL'ARTE CONTEMPORANEA ITALIANA IN ESILIO

Il progetto ideato da Cesare Pietroiusti, in collaborazione con Alessandra Meo, Mattia Pellegrini e Davide Ricco, intende raccogliere su tutto il territorio italiano opere realizzate da personalità singole o collettive che svolgono attività creative sorprendenti, eterodosse, fuori dai circuiti della comunicazione mediatica.
Il Museo non avrà una sede fisica fissa: concepito come entità nomade sarà esiliato presso istituzioni museali e associazioni culturali estere.

lunedì 7 novembre 2011

Divino Pozzo - Il testo letto da Andrea Lanini il 18 giugno 2011 a Corte Nova, Venezia

I pozzi veneziani sono bellissimi perché sono tutti diversi l’uno dall’altro.
Venezia è una città sull’acqua che però non aveva l’acqua, per questo le famiglie ricche costruivano pozzi per i cittadini, usando tecniche raffinate di raccolta.
Diciamo che a Venezia dei privati si davano da fare per l’acqua pubblica.
L’importanza dei pozzi è anche simbolica il che è del resto evidente nella Bibbia. Infatti quando Cristo incontra la Samaritana ciò accade, guarda caso, accanto ad un pozzo.
Gesù stupisce i suoi stessi apostoli, non solo perché parla di sé come di colui che con la sua acqua spegne la sete dell’anima, ma anche perché parla con una donna, e questo non era normale.
Quando in un pozzo c’è l’acqua è una cosa normale.
Quando invece c’è il vino non è normale per niente.
Ciò che invece è normale in questo caso è pensare ad un'altra parabola, quella delle nozze di Cana.
Perché è in quella circostanza,come è noto,che Gesù muta l’acqua in vino.
L’episodio è rappresentato magistralmente, in un suo dipinto, da Paolo Veronese, e in un modo assai poco normale, La Vergine e Gesù quasi non si vedono.
Si vedono di più servitori di colore, nani, buffoni e poveri cani rannicchiati sotto i tavoli ad aspettare un boccone.
In primo piano ci sono quattro musici, due dei quali suonano la viola, uno il corno e un altro il violino.
La tradizione ci dice che quei musici sono Tiziano, Tintoretto, Bassano e vestito di bianco,lo stesso Veronese.
Ancora pochi anni prima, gli artisti non erano molto più in alto dei musici e dei buffoni, nella scala sociale.
Comunque lui trasforma la festa di Cana nella festa della pittura.
E la pittura veneziana, con i suoi straordinari colori è proprio come la musica.
Anche gli abiti dei convitati sono variopinti e raffinati, ricchi come quelli che li indossano.
Il pozzo di cartone invece è un povero pozzo.
E il cartone è un materiale così povero che non posso non tagliarlo a mano, con le forbici o con il taglierino, a seconda delle necessità.
I cartoni li incollo uno su l’altro con una fatica continua che fa pensare ad una specie di espiazione, il cui motivo sta forse in qualcosa di più personale del peccato originale.
I cartoni li cerco nei cassonetti e non soltanto in quelli bianchi, che a Roma sono riservati alla raccolta differenziata della carta, perché come è noto, i romani non la rispettano. Qualche volta ci rovisto dentro, ma cerco di farlo di nascosto, perché essere osservato mentre rovisto nei cassonetti un po’ mi imbarazza.
Una volta un giovane rom che andava in cerca di reperti nei cassonetti, armato di un carrello e di un ferro uncinato, mi ha visto e mi ha detto gentilmente : aspetta che ti aiuto io.
Un’altra volta in una fiera d’arte ho visto in uno stand un accumulo di cartoni e la giovane gallerista mi ha detto che era tagliato a mano e che per questo era più bello.
Non ho avuto difficoltà a crederle ma ho nascosto la mano destra per non far vedere i calli, perché lei mi aveva scambiato per un collezionista.
Essere scambiato per un collezionista è’ una cosa che mi capita spesso da quando ho i capelli bianchi e il fatto mi imbarazza perché non avendo mai pensato di vendere i miei accumuli a qualcuno, non vedo una ragione plausibile per comprare quelli degli altri.
Riguardo a queste cose, ho letto di recente una cosa interessante: “ E’ straordinario - scrive l’autore - che mentre sono aumentati a dismisura i prezzi che si pagano per le opere d’arte, l’arte stessa abbia perso ogni diritto al nostro rispetto. La verità è che gli artisti, come ognuno di questi tempi, mirano soltanto al guadagno e non alla fama, come ai tempi andati, quando i più nobili di loro consideravano l’arte come una via per giungere alla gloria e ne attribuivano la pratica finanche agli dei.”
Questa riflessione è davvero molto attuale, perchè è antichissima.
Infatti risale al primo secolo dopo Cristo, e colui che l’ha formulata, Plinio il Vecchio, autore della monumentale Historia Naturalis, può ragionevolmente essere definito un pozzo di scienza.

L'esilio del curatore - di Giulia Girardello

All’interno del Museo in Esilio, quale potrebbe essere il ruolo del curatore? Quali nuove pratiche curatoriali potremmo immaginare per non tradire il senso di questo progetto, per non compiere l’assurdo gesto di voler riportare in qualche modo dentro al sistema chi lo rifiuta?
Ho trovato molto significativo che Francesco “Piccio” (Stalker) concluda il suo intervento con questa non troppo ironica considerazione: “il problema sono i curatori...”, e che Chiaralice e Alessandro abbiano giustamente ricordato il legame tra i concetti di “curiosità” e “cura”.
Può il curatore stesso essere un outsider? Operare anche lui, come questi artisti, al margine? Essere eccentrico rispetto al sistema dell’arte? E, se sì, in che modo questo può tradursi in concreto?
Penso al lavoro di Aldo Piromalli, l’artista per e con il quale sto sviluppando la mia ricerca, e mi viene in mente una precisa operazione che lui compie da una decina di anni.
Oltre alle sue opere grafiche e letterarie, che invia a diversi destinatari nel mondo, Aldo spedisce la corrispondenza che arriva a lui da una giovane artista di San Francisco.
Aldo apre le buste (che sempre contengono disegni o prove di stampa in serigrafia), le richiude con nastro adesivo e, senza altro aggiungere, le inserisce in una seconda busta che invia, dopo averla compilata nel suo caratteristico modo, indicando come contenuto “present, cadeau, gift”.


Ricevere, leggere e passare. Inoltrare. Un regalo che ti arriva e che condividi, sotto forma di dono, con altri. Perché per te è interessante.
Certo, questo non ha alcun senso all’interno del circuito artistico istituzionale e nelle logiche della produzione culturale.
[Giulia Girardello]

EXIST-RESIST. Una narración de Talía Romero

Riflessioni di Talia Romeo sulla seconda parte del Laboratorio del "Museo in esilio" a L'Inadeguato progetto di Dora Garcia nel Padiglione Spagna della Biennale di Venezia.

http://theinadequate.net/blog/2011/11/exist-resist-una-narracion-de-talia-romero/
Space Metropoliz / Museo dell’arte contemporanea italiana in esilio
In esilio sulla Luna
IL RIGOVERNATORE LUNARE
performance di Giuliano Nannipieri
sabato 22 ottobre 2011 - ore 15,00 - Metropoliz_città meticcia - via Prenestina 913 - Roma
“[...]La lepre pesta nel mortaio il filtro, trae l’essenziale e rigoverna, va nella case di tutti ed entra in contatto con l’essenziale di ognuno, va e rigoverna va e paga per entrare in contatto con l’essenziale, con ciò che ha reso ognuno tranSITOriamente immortale. Riflette ed elabora l’eternità  paga per essere un riflesso di un nuovo mondo dove si paga per aiutare, - è un regalo a  se stessi avere la possibilita di spendersi per gli altri- dove la sperimentazione scientifica è tutt’uno con la vita, con la casa  e gli affetti, senza  acceleratori  .piuttosto decelerando, ascoltaldo dei sughi le tracce residue, l’inafferrato, l’inafferrabile[…]”  
(Giuliano Nanniperi)
Metropoliz, spazio di sperimentazione sociale e abitativa, rappresenta uno di quei luoghi in cui la produzione culturale si esprime liberamente perché estranea all’autocelebrazione mediatica che tende a sottrarsi a voci critiche. Uno spazio dove si creano piani di realtà e di densità di significato che mancano nei luoghi deputati all’arte e alla cultura.
Ed è in questo luogo che Giuliano Nannipieri darà vita alla performance Il Rigovernatore lunare. Impegnato nell'ultimo periodo in una ricerca basata sul concetto del “pagare per esistere”, ribalta la logica del rapporto governatore/governato andando come la lepre lunare di una favola cinese a ri-governare le case degli abitanti della Città Meticcia.
Il “Museo dell’arte contemporanea italiana in esilio” , progetto di Cesare Pietroiusti, curato da Alessandra Meo, Mattia Pellegrini e Davide Ricco, promuove su tutto il territorio italiano una ricerca con lo scopo di individuare personalità singole o collettive che svolgono attività creative sorprendenti, eterodosse, fuori dai circuiti della comunicazione mediatica. Si intendono esplorare anche le aree della ricerca scientifica o para-scientifica, dell’attivismo politico o della pratica simil-religiosa, specie quelle che si esprimono in forme non omologabili né definibili al'interno di paradigmi disciplinari, ideologici o rituali prefissati.
Il Museo si muove lungo i margini di luoghi fisici o ideali per indagare le pieghe entro cui nascono e si sviluppano forme altre di espressione artistica. Produzioni nate dall’esilio e che saranno destinate all’esilio: la collezione che si andrà a formare sarà infatti esposta esclusivamente fuori dal territorio italiano.
Giuliano Nannipieri, performer, poeta e filosofo livornese, lavora come maestro elementare. Si è occupato in questi anni di parassitismo artistico attraverso azioni non autorizzate in istituzioni come il Museo Pecci di Prato o la Biennale di Venezia. Da circa un anno collabora al progetto Museo dell’arte contemporanea italiana in esilio.

"Movimento : non rompeteci il razzo" testo di Giuliano Nannipieri sulla sua futura performance a Metropoliz

Movimento : non rompeteci il razzo ( e soprattutto non rompiamocelo o almeno facciamolo con poesia)

Non  riesco a scrivere ne a leggere…. mi si è vertiginosamente abbassata la vista così ho comprato, a dieci euro, un paio di occhiali “ da vicino” in un market cinese: non riesco ad usarli  per  più di dieci minuti dopo di che vengo preso da  una sorta di nausea, un capogiro una vertigine ….che mi sottraggono allo studio, alle pratiche di lettoscrittura : torno così finalmente all’oralità, ai canti,  alla campagna da cui provengo, alle veglie e alle narrarazioni; la caduta della vista mi emancipa definitivamente da tutti i supporti: dalla carta, dalla stoffa, dalla tela, dai monitor…dall’ obbligo di trasferire pensiero su supporto presunto duraturo permanente ……. desidero solo ballare mangiare dormire fare l’amore …

Movimento uno: caduta del lavello / acquaio

Fuggito in cucina con vertigini da lettura, nel rifugio del “ rigovernare”, “fare i piatti”in un percorso di lotta quotidiana all’ entropia domestica,  ho sentito  all’improvviso cedermi di fronte la pesante struttura dell’acquaio (non starò qui a raccontare dello spavento e di come sia  riuscito ad evitare in exstremis che un pesantissimo acquaio di maiolica mi crollasse sui piedi con chissà quali nefande conseguenze - piuttosto mi dilungherò sul chiosare le differenze fra acquaio e lavello, collocandomi io nella schiera di coloro che dicono comicamente acquaio.
 Evocare la danza del fanciullo eternamente giocante  pas paizon serve a richiamare l’aion  il cosmocaos originario, l’aiola che con etimo analogo contiene l’ordine disordine della natura, lo sciame, l’aiolo cosmico; ecco così  che l’acquaio mi pare come l’aiola dell’acqua, il luogo deputato all’ordine sciamante dell’acqua, l’acquaio come luogo di addomesticamento , in cui l’acqua è to perform, addestrata imbrigliata e tuttavia non imprigionata; passa, gioca, lavora e se ne va via, come i semi dalle aiole, come le api dall’alveare, come la materia dai vari cosmo.
L’ acquaio mi è crollato sui piedi, mi è crollato addosso un sistema di organizzazione del tempo, sono in fuga …ma i piedi sembrano salvi…
Mentre il lavello evoca il fare funzionale, il lavare appunto piuttosto che la materia cui lo spazio è vocato; acquaio conseguentemente  è il luogo della acque, c’è qui il rispetto per il divino sebbene usato, asservito - con la consapevolezza della grazia che questi accorda; acquaio: sacrario delle acque, aiola delle acque. Lavello invece nomina la funzione, spoetizza, riduce ad un visus dell’umano che altro non è  se non ciò che fa. Ma in toscana l’umano non si riduce alle opere e le opere anzi sono belle e acquistano un senso perché sono un riflesso dell’umano, del segreto umano che rinvia al divino, alla natura, al cosmo anzi all’aion nel suo complesso : poterlo illusoriamente imbrigliare è solo teatro, il corpo è un teatro, uno dei tanti  teatrini del cosmo; il corpo  è l’acquaio della natura, del cosmocaos che manifestiamo- ecco ci potremmo nomare cosmocaosaio. Di contro con etimi maniacal ludici potreste oppormi il lavello  d’oro-  rapidamente ribatto che non mi interessano percorsi iniziatici, ne soggetti buoni per il cinema americano ; di base è già troppo quello che possediamo: il nostro problema non è trovare qualcosa ma liberarci di quello che abbiamo, liberarci del troppo-  donare piuttosto che conquistare ……….anche delle sperimentazioni sui neutrini se ne potrebbe fare a meno, come di aerei da guerra miliardari del resto

E qui parlo di lepre lunare :

Capisco dunque il bisogno di fuggire  per liberarsi da ciò che ci circonda- fuggire sulla luna per liberarsi di gagj e del capitalismo imperante……. come liberarsi del capitalismo ?: andando sulla luna appunto ! Benissimo ! Vi seguo

Appunti 2

Mentre tenevo l’acquaio premendoci contro il corpo, il sesso, le cosce perchè non crollasse rovinosamente pensavo che non avrei retto a lungo- sono rimasto così per  un ‘ora- poi preso da furia e disperazione con un piede sono riuscito a mettere una sedia ed il tavolo a contrasto con l’acquaio  bloccandolo. Nei giorni successivi vista la pesantezza straordinaria si è posto il problema dello smaltimento, fra le ipotesi si è profilata quella del romperlo- previa copertura con tappeti – a mazzate: non ce l’ho fatta mi dispiaceva……è di un bianco porcellana con riflessi davvero a tal punto evocativi, che non si poteva toccare e poi pensando a tutta l’acqua che c’era passata trasformando la casa in uno snodo di materie ..fluidificandola…inoltre messo così, lontano dalla parete, isolato mi è apparso come un’ astronave, una navicella lunare appunto. Quando mi hai telefonato avevo letto da pochi minuti un testo sulla mitologia cinese in cui si racconta della lepre lunare…  la coincidenza non poteva non fare testo visto il progetto di cui mi avevi parlato: 
la lepre fa un filtro, vive sulla luna, e prepara un filtro, un elisir :”pesta in un mortaio l’essenza dell’immortalità” 
L acquaio in realtà beve/ non divora– entra in contatto, deterge digerisce - in fase preparatoria e di smaltimento, riordino - tutto quello che noi mangiamo…incontra in forma di traccia, residuale;  ecco ad essere anaiplatonici e piuttosto nomadici, parlerei di "essenzialità" per ciò che resta, per l’inafferrabile…. penso al sugo che resta ostinatamente aderente al piatto e che non viene mangiato a meno che non se ne colga l’essenza- della pasta appunto- facendo la scarpetta: ora l’essenziale sfuggito al desco nell’acquaio si mischia ad acqua e solventi producendo un elisir che trascina fuori dalla casa il tutto verso il mare e rende il tutto nuovamente disponibile? in un percorso analogo a quello che il cibo fa dentro di noi  rendendoci transitoriamente immortali,,,, 
  Mortaio…..luogo in cui la morte sta come in aiola….. macinare fino ad atomizzare a rendere la materia nuovamente usabile: morte come scomposizione essenziale: :mi penso  disidratato dopo i processi di marcescenza e perdita dei liquori corporei e poi triturato dalla morte: materia pronta a riprendere nuove posizione nel cosmocaos, una particella sul naso di un cane in un piccolo paese sugli appennini , altre per un po’ volanti, alcune nella cacca/ bava di una lumaca , altre nel guscio d’uovo di una tartaruga, certe nella carta di quaderno di un bambino che preferirebbe stare a scuola piuttosto che lavorare (questa è retorica e di parte, va beh !) alcune annidate nella vagina vegetale di un fiore altre in un elettrodotto  . Ma avranno la memoria dei transiti? Secondo alcuni si, come sull’ acqua in cui la luna si è riflessa resta un’ impronta una traccia, una memoria: l’essenziale: l’impronta del rossetto sul bicchiere, quella dell’urina sulle mutande o in  gore secche sulle materasse; ci deddono essere tracce così penso sulle particelle infinitesimali della materia gore di noi, di fiore, di gatto sui neutrini danzanti macchiati d’essenziale, sicuramente enormi, per particelle ancora più minute, macchiati di macchie che ne spiegano la storia: niente è puro tutto è splendidamente macchiato,neutro mai e men che mai neutrino, fatto  piuttosto di macchie sovrapposte che negano per paradosso ogni substrato se non come limite all’individuazione d’origine della macchia di cui si perde memoria, bordo dei ricordi. La lepre pesta nel mortaio il filtro, trae l’essenziale e rigoverna, va nella case di tutti ed entra in contatto con l’essenziale di ognuno, va e rigoverna va e paga per entrare in contatto con l’essenziale, con ciò che ha reso ognuno tranSITOriamente immortale. Riflette ed elabora l’eternità  paga per essere un riflesso di un nuovo mondo dove si paga per aiutare, - è un regalo a  se stessi avere la possibilita di spendersi per gli altri- dove la sperimentazione scientifica è tutt’uno con la vita, con la casa  e gli affetti, senza  accelleratori  .piuttosto decelerando, ascoltaldo dei sughi le tracce residue, l’inafferrato, l’inafferrabile .  

postilla
Aion è il tempo  precronologico, acronologico: la convivenza degli spazio/tempo fuori dall'asse ternario (aeTERNO) di prima, ora, dopo; é una composizione a sciame (aiolo) sciamante non gerarchica, non divorante, in cui il tempo si fa compresenza di tutti gli spazi, aiola; qui si annullano i contrasti, le contraddizioni si amano facendosi cosmocaos ( da qui- pas paizon- forse ed in parte  arriva anzi sta, sciAMANO il RIGOVERNATORE Lunare, da sempre e per poco rigoverna e si spende.......... sciAMA...... )  

aggiunta terminale al telefono
Le particelle sono Leprotte  feconde,prolifiche e proletarie, .come la lepre sono fecondate da tutto ciò con cui si incontrano.
Memoria come genoma di vita futura-macchie.
Non esistono neutrini ma microsopici leprotti laSCIVI e prolifici.

venerdì 4 novembre 2011

Alcune riflessioni sul primo incontro del laboratorio del "Museo in Esilio" nel padiglione Spagna della Biennale di Venezia

Il "Museo dell'arte contemporanea italiana in esilio" ha realizzato un laboratorio all'interno della Biennale di Venezia nel Padiglione Spagnolo come parte del progetto “L'Inadeguato” dell'artista Dora Garcia.
L'Inadeguato è un progetto sulle marginalità artistiche e politiche dagli anni 70 ad oggi in Italia, con particolare riferimento al potenziale rivoluzionario della legge Basaglia non solo in ambito psichiatrico ma anche culturale.
Dora Garcia una volta scelta come unica artista del Padiglione Spagnolo ha deciso di trasformarlo in una serie di incontri/performance che lo renderanno attivo per tutta la durata della Biennale.
Il gruppo del “Museo in esilio” composto da Cesare Pietroiusti, Alessandra Meo, Mattia Pellegrini e Davide ricco ha deciso a sua volta di creare un laboratorio operativo diviso in due incontri.
In questo primo incontro abbiamo spiegato gli intenti del museo in esilio, quindi la ricerca di personalità che per qualche particolare caratteristica possano essere considerati” “artisti in esilio” ( esclusi o autoesclusi dal mondo dell'arte,personaggi che praticano ricerche eccentriche o hanno comportamenti eterodossi consapevoli o meno di fare arte, ma anche ricerche nell'ambito del parascientifico, del parapolitico, del parareligioso ...insomma in generale quei personaggi i cui comportamenti mettano in crisi le regole prestabilite dei sistemi di controllo).
Inoltre è stata l'occasione per far conoscere direttamente attraverso le loro performance tre artisti che già fanno parte del progetto (Fausto Delle Chiaie, Giuliano Nannipieri e Andrea Lanini)
Il secondo incontro a fine ottobre permetterà ai partecipanti di mostrare il materiale raccolto in questi mesi attraverso qualsiasi metodo di documentazione tenendo in considerazione però una dalla peculiarità del progetto cioè quello di adattarsi all'artista a seconda delle proprie qualità ed esigenze e non viceversa.

Il laboratorio si è infilato in una piega della piega del sistema Biennale. Trasformati dalla pedana centrale del padiglione L'Inadeguato in performer non troppo consapevoli si è creata una situazione di dibattito e di sperimentazione curatoriale ed artistica.
La discussione si è animata sui concetti di esilio, sulle pratiche di inclusione ed esclusione del sistema dell'arte e sulla messa in discussione di tali tematiche.
Non sono mancate le domande critiche e il lecito dubbio che portando in superficie certe ricerche si rischi di mescolarle con quel sistema che in realtà si sta criticando.
La risposta più significativa credo che sia stata data dagli artisti presenti che con le loro performance hanno destabilizzato, ognuno a suo modo, i vari ambiti precostituiti del controllo sulla produzione culturale ed artistica.

Giuliano Nannipieri già da prima del nostro ingresso ha iniziato le sue performance multiple che hanno attraversato tutta la durata del workshop.
Appena entrati lo abbiamo trovato sotto un telo nel centro del padiglione e poco distante un cellulare che squillava aspettando di interagire con lo spettatore (pagare per essere ascoltati) successivamente ha creato con farina ed acqua delle piccole palline, finti pidocchi da attaccare e poi riprendere pagando (pagare per esistere), performance da maestra come gli piace sottolineare che aveva già praticato nella scuola elementare dove insegna per togliere la paura del contagio del parassita ai bambini ed eliminare il pregiudizio verso i Rom (spesso additati dai genitori come i responsabili)
Tutto questo avveniva mentre si spiegava il progetto e le incursioni parassitarie di Nannipieri rendevano l'atmosfera ancor più interessante con un dialogo con Cesare Pietroiusti che si mostrava totalmente indifferente mentre Giuliano con la bocca staccava i “pidocchi” dalla sua testa, dialogo da grandi performer.
La multi performance è continuata con la consegna della seconda tesi dell'artista stampata in Falso adelfi “Dal corpo al corpus and back again: me stesso con e senza rete. Pratiche di costruzione della memoria. Storia come pubblicità e restauro della performance”.
Così al bordo della pedana ha allestito una colonna di suoi libri poi ha sistemato della carne (su cui scriveva “pagare per esistere”) e due lettere di rifiuto del suo lavoro da parte di Gagosian e Saatchi trasformate in adesivo .
Per concludere la mattinata ha poi posizionato fuori dall'ingresso del padiglione una piscinetta sgonfia che riempiva con secchiellate d'acqua dove si è rotolato violentemente quasi nudo (qui è riemerso il suo passato da artista body radicale) per poi iniziarvi a leggere una delle lettere mandate nei mesi di dialogo al “museo in esilio” portando progressivamente la propria voce al limite : “Questa italiana mi sembra una società fortemente egoica ovvero una società in cui i processi collettivi di semplificazione banalizzano alla coscienza i desideri profondi in percorsi di omologazione”.
La forza concettuale e l'impatto fisico di Giuliano sono state recepite da tutti i partecipanti confermando l'idea che ci sono grandi artisti che praticano fuori dal sistema.
Nel pomeriggio ha poi attaccato sul muro del padiglione adesivi con lettere ed immagini del proprio lavoro trascrivendo le caratteristiche fondamentali del suo pensiero, si è poi unito a noi nella discussione portando la sua grande carica di pensatore radicale.
Ha infine concluso il workshop attaccando 20 centesimi nelle sua “Opera ridotta a pubblicità”, un disegno stampato sul Poster/Manifesto del “Museo in Esilio” creato in vista di questo evento in collaborazione con la rivista “Boite” di Giulia Brivio e Federica Boràgina.

Fausto Delle Chiaie artista romano molto conosciuto soprattutto perché da più di vent'anni allestisce il suo “Museo a cielo aperto” in Piazza Augusto imperatore, ci ha incantato già nel giorno precedente al laboratorio quando appena sceso a Venezia è riuscito immediatamente ad individuare il contesto giusto per le sue azioni.
Con il suo finto cagnolino Lilly al guinzaglio ed il suo falso cellulare ha bloccato un' intera strada di passanti divertiti ed inconsapevoli di fare essi stessi parte dell'opera totale di Fausto Delle Chiaie.
All'interno del Padiglione è stato proiettato il video documentario sull'artista romano dal nome “Robaccia” http://www.youtube.com/watch?v=wLdteywPgTc
Successivamente ha risposto alle domande dei partecipanti ribadendo la convinzione che all'interno del contesto “l'opera è tutto”.
Quando gli è stata chiesta la reazione della polizia municipale e dei passanti in generale rispetto al suo lavoro ed al fatto di non avere permessi per esporre sul suolo pubblico Fausto ha affermato che nessuno chiede di togliere i suoi oggetti dalla strada perché la determinazione e la costanza della propria ricerca artistica hanno fatto si che lui e il suo museo siano parte integrante di quel contesto urbano e quindi non rimuovibili.
Del suo “museo a cielo aperto” come ci tiene giustamente a ribadire è il curatore,l'opera,il cassiere,il controllore,l'artista.. è tutto ripete, facendo una smorfia, carico di quell'ironia dono delle grandi menti.
Nella sua consapevolezza di essere un artista e di “dare molto più che una monetina a Roma e a chi passa” scardina profondamente i concetti di “artista” e di “museo” indagando le possibilità di una vita libera, fuori dagli schemi e dalle manie di successo “ufficiale” e denaro.

Andrea Lanini oltre ad aver partecipato attivamente alla discussione sulla pedana de L' Inadeguato ha deciso di creare fuori della Biennale un Happening dal nome “Di vino Pozzo” nel quartiere popolare di Castello appena fuori i giardini.
Riprendendo le caratteristiche essenziali della sua ricerca, quindi il dialogo con i contesto e la relazione con l'arte del passato ( la sua pratica artistica è sempre corsa parallela a quella di insegnate di Storia dell'arte), ha creato un “installazione generosa e potenzialmente generatrice di ebbrezza”.
Sullo sfondo della calle interviene su quattro panni attaccati in mezzo ai vestiti degli abitanti che rimandano ai maestri della pittura rinascimentale veneziana e poi allestisce un pozzo di cartone tagliato a mano posizionato tra due veri pozzi.
Il riferimento storico va a Veronese e alle Nozze di Cana quindi un pozzo non di acqua ma pieno di Vino. Dopo aver letto un bellissimo testo scritto per l'occasione ha iniziato a versare il Vino concludendo la giornata in maniera festosa e Dionisiaca, creando una di quelle “Zone autonome temporanee” , descritte da Hakim Bey, dove i pensieri vanno liberi i dibattiti si animano e tutto il conosciuto viene messo radicalmente in discussione, esempio e specchio di quelle situazioni che va cercando di creare il “Museo dell'arte contemporanea italiana in esilio”.
[Mattia Pellegrini]








                                                      


                                          
















Foto Letizia Romeo 



Considerazioni prima giornata di laboratorio museo in esilio:

Hal Foster ne Il ritorno del reale ricorda una frase di Donald Judd: "a work of art needs only to be interesting".
Nel suo caso, lo spostamento dal criterio di qualità a quello di interesse si rifaceva al pubblico del mondo dell'arte.
Nel nostro caso, sarà interessante capire come e in che modo si potrà espandere quel concetto ad esempio in ambiti come quelli dell'appropriazione, dell' identificazione, della cultura di massa e come in tutto questo opera la desublimazione dell'esperienza estetica, della sua concezione e del suo giudizio critico.
Riguardo i dubbi alzati rispetto al rischio di spettacolarizzare i risultati delle investigazioni, forse un modo per evitare quella deriva sarà approcciarsi al concetto di "curioso" nell' accezione latina della parola stessa, curiosus, che a sua volta deriva da cura, investigando i materiali e i soggetti che incontreremo, in un percorso che li porterà da materiali repressi a "materiali resistenti".     
[Chiaralice Rizzi e Alessandro Laita]







Divino pozzo_ Andrea Lanini




Il Laboratorio “Museo dell’Arte Contemporanea Italiana in Esilio” si svolgerà il 18 giugno nell’ambito del progetto di Dora Garcia “L’Inadeguato”, presso il Padiglione Spagnolo – Giardini della Biennale (orario a
partire dalle ore 11)

Dopo il laboratorio alcuni degli artisti partecipanti (Fausto Delle Chiaie, Andrea Lanini, Giuliano Nannipieri) realizzeranno performance e installazioni temporanee in vari luoghi della città di Venezia.
In particolare in Corte Nova (traversa di via Garibaldi) Andrea Lanini, a partire dalle ore 18.30, presenterà il suo lavoro Di vino pozzo, installazione generosa e potenzialmente generatrice di ebbrezza.

Siete tutti invitati a intervenire.

Andrea Lanini: idee per Venezia


(Primavera 2011)
Cari Amici del Museo in Esilio,
Riassumo qualche idea per Venezia, sulle quali possiamo riflettere per sceglierne una o più di una. Non nascondo che le prime tre mi stanno più simpatiche. E’ anche probabile che ne venga fuori qualche altra col tempo o con un eventuale sopralluogo.

1.Tenda da strada.

E’ composta da bustine di plastica trasparente che, collegate l’una all’altra, formano lunghe strisce appese ad una sbarra orizzontale. In ciascuna bustina è contenuto un piccolo reperto, raccolto nel corso di una passeggiata, che può esser anche fissata in un particolare giorno dell’anno.
In un certo senso, attraversare quella tenda, magari appesa in un sottoportego, vuol dire ripercorrere in un istante quella passeggiata.
(Dentro ciascuna bustina può essere contenuto un cerino, una piuma di piccione, una goccia d’acqua di un canale, un coriandolo, una moneta, uno scontrino ecc. ecc.)
Si possono immaginare varianti suggestive, impiegando magari frammenti di pagine di un libro (Morte a Venezia) o reperti raccolti in luoghi marginali (Marghera, il Ghetto, un campo nomadi...)

2.Città di esiliati.

E’ realizzata con alcune torri alte e sottili, fatte di cartone e pagine di scrittori esiliati ( Dante, Ovidio, Salman Rushdie ecc.) le quali formano una sorta di città verticale che può nascere dovunque.
Le torri sono sostenute da un’ anima di ferro che parte da una base anch’essa di ferro, presumibilmente quadrata o rettangolare.

3.Accampamento.

Particolarmente legato all’idea dell’esilio, è costituito da alcune ( quattro, cinque o sei...) tende da campeggio a igloo, autoportanti e come tali senza picchetti (che danneggerebbero il pavimento), disposte in un campo veneziano, meglio se periferico o comunque un po’ nascosto, a formare un accampamento di esiliati. Ciascuna tenda contiene un grande specchio o frammento di specchio, preferibilmente proveniente da una vetreria locale, per suggerire l’idea che ad essere esiliate sono le immagini.
Se associato alla tenda da strada l’accampamento si collocherebbe sotto il segno verbale delle tende veneziane. Tende che attendono i visitatori e che tendono a sorprenderli. Si potrebbe pensare anche a collocare le tende in un rio. Una interessante variante, più vicina come ispirazione ad un’idea di arte come reportage e come sondaggio, non priva di una sua graffiante inclinazione alla protesta sociale, può essere quella dell’accampamento di reperti. La definizione finale dell’accampamento/camping si avrebbe allora dopo la ricerca e il raccoglimento, non solo mistico e psicologico, di oggetti abbandonati in una qualche zona industriale e periferica (Mestre, Marghera ecc.) magari con la documentazione video e/o fotografica o anche scritta delle varie fasi della operazione.

4.Lampadario mostruoso.

Un lampadario di Murano, colorato, ma sviluppato in forme asimmetriche e mostruose, appeso in una calle possibilmente marginale. Ha il pregio di essere particolarmente suggestivo, di notte, e di poter essere visto magari anche da un canale, passando con la barca. Ha il difetto di richiedere una istallazione più complessa, una alimentazione elettrica, un lavoro con i produttori del vetro ecc. Non ultima l’incidenza dei costi.

5.Barca
Si tratterebbe di recuperare e ingrandire la barca di cartone che ho esposto al Ponte Milvio, nel settembre del 2010, adattandola al contesto. Ha il pregio di integrarsi perfettamente nella rete acquatica veneziana, soprattutto in uno “squero”( ce n’è uno famoso vicino alle “Zattere”), ma ha il difetto di esistere già e quindi, almeno per me, di essere un po’ meno stimolante.
Inoltre è pesante e richiederebbe un adeguato sistema di trasporto, che sarebbe comunque un po’ facilitato dal fatto che la barca è divisa in pezzi .
Un altro problema è dato dal fatto che, essendo in cartone, non ama la pioggia.

6.Pozzo Divino

Un finto pozzo in cartone da piazzare in un piccolo campo dove non ce n’è già uno vero ( dove ve ne fosse già uno occorrerebbe calibrare le distanze ). All’interno un bacino in metallo leggero è destinato a contenere vino o spriz da distribuire per l’occasione in appositi bicchierini di carta. Finito il vino, sul fondo del bacile può apparire una scritta. L’idea della trasformazione dell’acqua in vino, alla quale il pozzo potrebbe alludere, coinvolgerebbe una delle più belle opere della pittura veneziana del rinascimento : le Nozze di Cana di Paolo Veronese.

(Il pozzo veneziano è una struttura complessa che implicava una spesa notevole e come tale veniva considerata come un dono assai apprezzabile, fatto alla città dalle famiglie aristocratiche che potevano permetterselo. Si trattava di uno scavo ampio e profondo anche 5 o 6 metri, tale da richiedere qualche volta l’innalzamento della pavimentazione, in ogni caso in campi e cortili piuttosto grandi. Lo scavo veniva rivestito di argilla per l’impermeabilizzazione e riempito di sabbia per il filtraggio di acqua piovana che era la sola fonte di approvvigionamento. La vera e propria canna, una sorta di grande tubo cilindrico che sfociava superiormente nella vera da pozzo, aveva al fondo una pietra d’istria dove finiva l’acqua filtrata dalla sabbia e dai particolari mattoni ( pozzali) forati, impiegati nella costruzione della canna stessa. Simmetricamente rispetto alla vera da pozzo erano situati due o quattro tombini sotto i quali dei condotti a campana (pilelle) servivano a convogliare l’acqua piovana nella sabbia di filtraggio.)

SIMBOLOGIE

Presso Glastonbury nel Sommerset, si trova un antico pozzo detto del Calice le cui acque sembrano trasmettere il suono del battito di un cuore. Tra l’altro, la presenza di sostanze ferrose rendono le acque piuttosto rosse, così da richiamare, secondo una antica leggenda, il Calice del santo Graal che si ritiene fosse custodito proprio là dentro, a ricordare il calice dell’ultima cena, dopo essere stato portato in Inghilterra da Giuseppe di Arimatea
Il pozzo del Calice è anche ricollegato da molti ad una divina simbologia femminile che sarebbe ripresa nel disegno presente nel coperchio, progettato dall’archeologo Bligh Bond nell’ottocento. Questi utilizzò il disegno simbolico del Vesica Pisces, caratterizzato da due cerchi che si intersecano. Più in generale in molte culture il pozzo rinvia alla presenza di una divinità femminile alla quale alluderebbe sia la presenza dell’acqua che la profondità.
Il pozzo è comunque presente in tutte le più importanti narrazioni bibliche, come nel caso della parabola di Cristo e la Samaritana. Qui il pozzo diviene simbolo della grazia di Dio che scaturisce in continuazione, come Gesù suggerisce alla donna di Samaria, ma anche di riconciliazione perché Giudei e Samaritani, per antichissime vicende storiche si consideravano reciprocamente popoli segnati dal male. In questa parabola Cristo mostra anche di essere profeta poiché conosce la vita personale della donna ( Hai avuto cinque uomini...ma nessuno è divenuto tuo marito...) alludendo quindi all’idea tradizionale del “pozzo di scienza”. E’ insolito che Cristo si intrattenga a parlare con una donna perché le donne non avevano un normale diritto di parola.
(Gesù attraversa la Samaria per andare dalla Galilea a Gerusalemme. Non dovrebbe, secondo il pensiero dei suoi apostoli, avere contatti con i Samaritani che gli ebrei considerano un popolo stolto perché sono dei sanguemisti, da nove secoli non pregano a Gerusalemme e venerano un loro Dio sulla montagna detta Garizim, cioè fanno cose assolutamente disdicevoli. Il pozzo al quale inaspettatamente Gesù si ferma a parlare con la donna di Samaria esiste ancora ed è profondo 32 metri.
Viene considerato il pozzo che Giacobbe donò a Giuseppe e perciò è detto pozzo di Giacobbe. Gesù chiede alla Samaritana : “ Dammi da bere” e la donna di rimando gli domanda perché mai un ebreo rivolga la parola ad una samaritana. “ Se tu sapessi chi ti chiede dell’acqua, tu gliel’avresti data e lui di avrebbe restituito dell’acqua viva”. Gesù aggiunge anche che chiunque beva quell’acqua avrà ancora sete ma che se beve l’acqua che Lui gli dà non avrà mai più sete. La donna gli chiede se non sia più grande di Giacobbe che donò proprio quel pozzo e allora Gesù la incoraggia a chiamare suo marito. Quando la donna rivela di non avere marito Gesù mostra di conoscere che infatti egli ha avuto cinque uomini e non ne ha sposato nessuno. La donna comprende che Egli ha capacità profetiche e sospetta che sia il Messia. Gesù conferma.)

(Ma nel vecchio testamento Mosè si ferma al pozzo nella terra dei Madianiti e qui vede le sette figlie di Jethro. Le difende da alcuni pastori che le aggrediscono e viene portato dal re di Madian che gli darà in sposa Sephora, dalla quale avrà due figli.)

Naturalmente il pozzo è anche simbolo di conoscenza e, nell’ambito della psicologia individuale esso si riferisce all’inconscio e allo sprofondamento nella propria coscienza, evocando l’idea del crogiuolo nel quale ricordi, paure, desideri, si mescolano incessantemente.
Il pozzo è vita, per il fatto di dare l’acqua a tutti coloro che ne abbiano bisogno, ma anche morte per la sua profondità nel sottosuolo, dove i morti riposano in una oscurità misteriosa. In questa seconda accezione il pozzo si trova nella simbologia araba ad evocare la Porta dell’Inferno mentre in quella tedesca esso è considerato piuttosto come uno specchio d’acqua e quindi legato alla facoltà di predire il futuro.
Collegandosi alle radici profonde dell’uomo e della comunità il pozzo tiene insieme gli elementi della terra, dell’acqua e dell’aria e diviene, anche per la sua importanza funzionale, punto di riferimento per la comunità e dunque luogo di incontro e di conversazione. Ma è anche la sede delle divinità custodi del luogo e quindi luogo dove è possibile incontrare Dio.

LOGICHE DI SIGNIFICAZIONE

In tutta la vicenda del pozzo per Venezia e dei panni stesi, intesa come dislocazione nella realtà del sestiere, si afferma una curiosa dinamica dei ricordi simbolici che sembra stranamente riferirsi ad una fisica. Oggetti e significazioni si organizzano secondo movimenti che dipendono dal nostro umano dibatterci dentro la percezione e la conoscenza della realtà e della storia.
La quadratura, implicita in una pratica della misurazione che include il riferimento ai punti cardinali, si intreccia con la complessità dell’ottagono e con la sua relazione con l’infinito che i punti cardinali stessi suggeriscono in quanto fissati sul cerchio dell’orizzonte. Dall’ottagono, secondo un meccanismo che è appunto particolare di una fisica simbolica, si passa al cerchio e questa procedura simboleggia il legame progressivo tra quadrato e cerchio come metafora di una dialettica struggente tra misurazione e infinito incommensurabile.
Ritrovare per questa via la rete di forme e significati che si stende verso una sorta di infinito simbolico prova che in qualche modo nella realtà contemporanea di una immersione nel contesto esperibile si realizzano procedure e rimandi descrivibili e forse inattesi. Il pozzo, ad esempio, propone una centralità fisica che diventa anche centralità simbolica nel momento in cui tutta la materia immaginata si riferisce alla voragine fatale e profonda del vino e del sangue.
Il pozzo diventa anche il centro della antica festa veneziana, che si teneva all’aperto, in una città che è interamente aperta alla natura, come dimostrano le cene di Veronese e mentre queste cene si squadernano una dopo l’altra, da quella di Gregorio Magno a quella di Simeone, fino a quella famosa in casa di Levi, si pone come centro di tutte le cene quella delle nozze di Cana e fa perno sul pozzo, nel quale l’acqua si trasforma in vino.
Se da subito ho pensato che nel pozzo vi fosse del vino è perché Venezia è la città del giro dei bar e probabilmente qui ho semplicemente toccato la chiave di una discendenza che è quella della moderna euforia enologica in quanto erede del vino veronesiano e tizianesco.

La festa.

La distribuzione del vino, oltre ad evocare la riconciliazione del popolo attraverso il sangue di Cristo, rimanda alle feste veneziane del rinascimento che Veronese ha più volte rappresentato e che già di per sé assumevano un valore insieme cristologico e civile nel nome proprio del popolo veneziano. E’ noto infatti che la tradizione veneziana rafforzava il popolo nella convinzione di essere in qualche modo autonomo dalla chiesa di Roma e di fondare su una base comune la propria fede religiosa e i principi civili repubblicani sui quali si fondava il governo della città.
Non è un caso se Veronese, oltre ad aver trasformato in feste cittadine le più famose cene evangeliche, ha anche rappresentato in forma modernissima le grandi virtù e i valori dello spirito veneziano, dipingendo figure femminili in vesti del loro tempo come simboli della Prosperità o della Concordia, della Dialettica o della Fede o ancora della stessa città di Venezia, rasentando in straordinario anticipo certe allegorie civili dell’età dell’illuminismo e del neoclassicismo.
Realizzato nel 1563, il dipinto di Paolo Veronese, dedicato alle Nozze di Cana, è concepito proprio come una festa veneziana, tanto che alcuni studiosi lo pensano ambientato in un luogo classico simile alla residenza di Pietro Aretino. La cosa potrebbe essere confermata dalla figura del suonatore di viola d’amore posto al centro della scena e in primo piano, il cui ginocchio è una evidente citazione del Mosè di Michelangelo, poiché è nota la polemica che si sviluppò tra l’Aretino e il grande artista fiorentino. Altri ritengono che quel suonatore di viola impersonasse lo stesso Veronese, al quale si contrappone il collega in abito rosso che, a sua volta, rappresenterebbe Tiziano. Al tipico rosso tizianesco corrisponderebbe il bianco candido dell’abito di Veronese, in effetti vicino all’idea della luce solare e del biancore del sottinsù di Paolo. L’impianto architettonico, mutuato dal modello bramantesco della Scuola d’Atene, discende in realtà da Palladio con il quale il pittore stava collaborando a San Giorgio maggiore e con il quale aveva già lavorato, fino al 1560, nella villa Barbaro a Maser, Tra l’altro Tintoretto suonerebbe il violino e Bassano il cornetto. Queste sottese allusioni ricordano la Scuola d’Atene di Raffaello, della quale in qualche modo è qui ripresa anche la monumentale ambientazione classica per non dire delle figure vicine alle colonne molto simili ad altre presenti nelle stanze vaticane. Considerata la grande lezione giorgionesca non stupisce neppure l’accostamento che in questo caso Veronese farebbe tra pittura e musica. Ricordiamo tra l’altro che il dipinto, oggi al Louvre, fu sottratto da Napoleone e mai più restituito all’Italia. Sarebbero presenti nel dipinto, Eleonora d’Asburgo, Francesco I di Francia, Maria I di Inghilterra, Solimano il Magnifico, Vittoria Colonna, Carlo V, Marcantonio e Daniele Barbaro, Giulia Gonzaga e Reginald Pole, Triboulet e Mehmet Pascià Sokolovich.
Gli invitati del Veronese sono elegantissimi, spesso abbigliati in modo esotico, ad esempio indossando dei turbanti, e le donne sono mescolate agli uomini. Tutti conversano in modo amabile e animato e quasi non si distinguono dall’insieme neppure Gesù e la Madonna, se non per via della luce che circonda le loro teste.
E’ una impostazione tutta diversa da quella Tintoretto che aveva dipinto lo stesso soggetto due anni prima per la chiesa della Salute, avvolgendolo in una atmosfera decisamente più conventuale, dove le donne sono separate dagli uomini e dove più che conversare i partecipanti sono percorsi da una sorta di comune inquietudine.
Sul lato sinistro è visibile un uomo barbuto vestito con un prezioso abito blu come la cuffia che ha sul capo, mentre mostra al vicino l’uso di una forchetta, strumento allora non molto usato nei banchetti e anzi considerato nel medioevo come una disdicevole raffinatezza.

(Mi rendo conto, leggendo la guida di Venezia, che l’antico mito decadente della morte lenta della città in realtà non muore mai. Legato probabilmente in profondità all’idea di una città assediata, aggredita dal lento consumo dell’acqua e del mare, esso si è oggi incarnato in termini modernamente chiassosi nel fenomeno debordante del turismo e nel parallelo e meno chiassoso fenomeno della crisi demografica. In questa prospettiva nuova dell’antica morte a Venezia, le tende da campeggio acquistano il senso di un moderno assedio barbarico e chissà di quali indicibili oggetti potrebbero essere piene. Non è escluso che l’apparizione di questi oggetti sia accompagnata dalla musica di Benjamin Britten o di Mahler)
[Andrea Lanini]


il Vero Padiglione italiano è in esilio. In Spagna

Performance Trastevere 259_Giuliano Nannipieri

8 aprile 2011
Dopo una lunga discussione e l’ennesima dichiarazione di abbandono, la sera di giovedì 7 aprile non ce la faccio a pensare diversamente e decido di non venire a Roma ( quella sera ho pensato che non sarei proprio venuto) - optando piuttosto per un intervento telefonico- (quello del cellulare in bagno, posato su un letto di monete nella vasca, con ingresso individuale e racconto di fiabe previo pagamento all’ascoltatore- intervento che ho raccontato, esposto, accennandolo come possibilità, come corpus, durante la performance)- sono infatti troppo stanco per ipotizzare una mia partenza, ho gli occhi gonfi : non  dormo quasi per l’intera notte. Venerdì mattina ricevo la telefonata di Betti: :per strada ha trovato un biglietto ferroviario usato, la cui destinazione, in data primo aprile, è Roma Termini –  un segno indirizzato, volto al partire.
Dopo la scuola, nel primo pomeriggio saliamo sul treno.(le minacce di abbandono sono parzialmente rientrate)
Scendiamo a Trastevere, arriviamo all’Ara Pacis dopo varie telefonate; ci  siete: Mattia, Alessandra e Davide ; sembra che Dora (Garcia) abbia proposto di mettere il carrello di Delle Chiaie dentro una teca di vetro (alla biennale) “che palle!” ho un vortice, già avevo preconizzato l’uso della teca, in termini anche metaforici, nella prima mail a voi indirizzata ma adesso eccola qui “bell’eppronta” . Certo, è evidente, il carrello è troppo “contaminante”, si pone così il problema dell’oggettualizzazione e della ridefinizione dell’aura. E’ chiaramente la cornice a fare il quadro: un bel parallelepipedo anche se di vetro come del resto un rettangolo, da sempre hanno risolto e risolvono  molti problemi in arte, ed in fondo anche qui penso “la cornice”, quella  del museo è l’opera, questo museo in esilio, e noi poveri nienti, al massimo opere, crocefissi da esporre. La componente auratica e narcisistica di Fausto è stemperata nella democraticità della proposta, non c’è un pubblico socialmente eletto, l’opera è rivolta a tutti, la lotta con l’enorme teca dell’Ara è evidente; questo doppio- narciso  manifesta la sua forza nella costanza della proposta, nel coraggio della costanza, nell’essere continuamente in gioco : genius loci. Io parlo di bagni in laguna, e lui mi suggerisce di indicare degli orari. Penso di chiedere una teca piena d’acqua in cui far bagni- già l’ho proposto alla fondazione biennale, circa una ventina di anni fa; no! in realtà non voglio teche, non ne voglio. Avrei voglia di tornare a casa.
 Invece arriviamo allo studio di Cesare. Qui,  Matarrese col suo tono litanico, sembra catechizzare Dora,  parla e parla con fare ipnotico: certo si è autosospeso dalla produzione di opere materiali  ma sembra assolutamente intento a conservare memoria di se, del suo rifuto, a tramandarla, intento a costruire il suo monumento teorico, mnestico, auratico-  Penso all’arte contemporanea, non solo italiana e vedo un’infinità di opere che mi sembrano realizzate perfettamente per stare, essere collocate, perfettamente, in ipermercati, magari alcune al reparto elettrodomestici, altre in quello mobilio, altre ancora, grandi gigantografie pronte per qualsiasi spazio; è vero anche l’arte rinascimentale  precipuamente aveva come spazi chiese e palazzi e noi ora abbiamo i non loughi, gli ipermercati, tuttavia quando penso a queste opere (e potrei fare esempi) e le vedo appunto ben collocate come attrattori e distrattori  in tali spazi, mi sento triste, mi paiono orribili. Tuttavia anche essere votati a se stessi e non soltanto per denaro mi sembra una tristezza. Ma cosa ci faccio io ora qui? Mi faccio tristezza, anch’io. Cesare sembra in lotta con gli angoli del proprio corpo ed ha trovato delle soluzioni abbiglianti per ridurli a curve, sembra di gomma: mi dice che la madre si lamentava che in lui fossero troppo evidenti le ossa- mistero e potere della madre, le ha smussate. Giù a comprare la Pizza parliamo di Beecroft, di come forse i primi lavori, per me solo il primo, quello nello studio di Inga Pin, avessero un senso, ora sembrano avere quello di animazioni per gli spazi lingerie degli ipermercati, appunto. Di Cattelan , Cesare dice che è uno intelligente, certo anche lui è pronto al rifiuto (così almeno ha dichiarato su Repubblica) ma che tedio!, che noia! Fino ad ora ha lavorato e lavora per essere un marchio, per essere un “ brand”, detesto questa impostazione, questo identitarismo a tutti i costi, questa, scusate, fallicità ed il connesso senso dell’umorismo, anzi della goliardia, dello scherzetto da maschi, il gusto per la boutade.
 Di nuovo su :  Darsi, il maltese, apre al  “può darsi” (è una cifra sensata), al darsi alla fuga ( da me proposto) e al darsi malati, suggerito da Cesare.  Vorrei provare a finire ed andare a letto, a riposarmi; operare ed accennare, non essere invasivo, tentare di non esserlo, lavorare per tentativi, fare e non fare, incerto, senza creare distanza, anzi provando a ridurla ad allentare i confini, senza pretese, in modo anaeroico, non auratico. Apro il rubinetto della vasca e torno dopo poco a chiuderlo. Arrivano le olive e mi piacciono, O-LIVE, si è vitale e mi distraggo in parte dalla stanchezza. Propongo un lavoro da maestra e racconto, accenno cosa avrei potuto fare, dimesso e falsamente dimesso, dimezzo, riduco il racconto, il corpus:” nella vasca piena d’acqua su un letto di monete, il corpo avrebbe evocato un periodo ed un fare eroico ( anche per questo ho preferito ridurla, questa performance a corpus, a racconto, ad accenno) da qui avrei telefonato ad ognuno che entrasse, leggendo due favole ( che trascrivo)  lasciando ad ogni incontro la disponibiltà  a mutarsi  nel farsi della relazione. Ricordo come telefoni e computer avviino ad una vendita dell’attenzione: pagare appunto per esistere, per essere ascoltati o letti. Leggo distrattamente le fiabe e consegno ai presenti  l’equivalente in centesimi per un ascolto al cellulare o al computer , le fiabe sono le stesse che avrei usato anche nella performance a distanza sopra citata. Comincio a distribuire del materiale:”questo lavoro ha sette anni, è un lavoro didattico che ho proposto a scuola per sdrammatizzare un problema”.  Nei piattini che abbiamo preso in cucina metto della farina, mettiamo dello zucchero ed acqua, cominciamo a mischiare a formare della pastella, della pasta plasmabile che viene aggiustata dai vari piccoli gruppi. Dovremmo fare delle palline piccolissime, delle piccole sculture, ruotandole sotto le dita, ecco dovrebbero essere delle uova. Infatti i bambini avevano paura del contagio, dovremmo allora fare delle uova di pidocchio: il senso era esorcizzare il contagio e ridare ai pidocchi, alle loro uova, la funzione che avevano avuto in origine, quella cioè di sollecitare l’intrapresa della cura reciproca. Tornare alle origini antropologiche della cura. Invito ad attaccare le uova virtuose ad un compagno e successivamente a toglierle, direttamente mangiandole, Chiedo inoltre che sia pagato ogni uovo sottratto, che la componente cinica del pagare per l’interazione resti, sia innestata su questa originaria pratica di cura, ( ricerca di attenzione reciproca) “ti pago per attaccarti l’uovo e togliertelo, per avere la tua attenzione nel togliertelo, per darti la mia attenzione, per esistere”. Faccio l’ipotesi dell’acquisto reale delle lendini ma per l’occasione ho preferito lavorare sui “pidocchi dolci” facendo riferimento al mio status sociale di maestra.( evoco la distruzione progressiva  del modello di cooperazione fra donne proprio della scuola primaria italiana, distruzione messa in atto dall’attuale governo)
 In fondo le differite pratiche di contato con cellulari e computer rinviano a queste più dirette e originarie pratiche d’attenzione. Lavoriamo, ci sono scambi, mangiamo uova, le attacchiamo, le realizziamo, le mangiamo ( la vicinanza della bocca richiama l’antropofagia e la rende attendibile) passano centesimi, evochiamo il mercato, la sua ormai ubiqua  ineludibilità.  Le piccole sculture vengono mangiate, scompaiono, non c’è niente da vendere che non sia gia stato venduto o comprato, restano solo centesimi ed esperienza di cui forse parlare, lavoro improduttivo anzi dispendioso, il contagio reale è quello indotto dall’uso del denaro.  I confini mi sembra.sono allentati e tuttavia io mi sento fuori luogo: sono una maestra non un artista, nella società in cui si paga per essere ascoltati, per aver un  po’d’attenzione, l’arte nel mercato mi fa orrore, l’arte del mercato.   Si apre interlocutoria l’ultima evocazione : i carciofi  ( dimenticatemi perché sono nessuno, un buono a nulla) astrazione – non solo allontanarsi dal potere metamorfico del denaro : mangio l’uovo, realizzazione plastica, e subito freudianamente  pago-dono  con le feci fatte denaro, la cui plasticità è recuperata dalla natura metamorfica dello stesso. L’esilio non solo vuole porre la distanza dall’arte come oggetto di vendita, dal mercato, l’esiliato che io sono trova patetico, su di se, in primis il desiderio di persistenza nella memoria, vorrebbe emanciparsene. Carciofo: leggo un testo sui fiori commestibili. Ipotizzo che i mangiatori di loto dell’odissea siano in realtà mangiatori di carciofi, di fiori in boccio. La vicinanza formale fra loto e carciofo è assoluta: harsuf  è il nome arabo del carciofo-  (dico che avrei potuto far galleggiare i carciofi sull’acqua della vasca, floating flowers, evocare praticamente le ninfee di Monet, ma non lo faccio , chiedo di persare a questa possibilità, di ipotizzarla- dare al possibile la natura di virtuosità, di immagine realizzabile –“potete immaginarlo” mi limito a dire - senza ricadere nel potenziale metamorfico del denaro, che in tutto può trasformare il proprio potere anche nelle ninfee di Monet- il virtuoso contro il virtuale- una cosa non fatta, evocata contro le carte di credito e il possesso).
 Harsuf  è il nome arabo del carciofo, e suf  rimanda a sufi a sofia, a saggezza.. Fiore spinoso, fiore della saggezza. I compagni di Ulisse mangiano loto ( pianta della saggezza- quale miglior saggezza dell’oblio-), dimenticano la patria e così anche la condizione d’esilio. Anch’ io voglio dimenticare, e far dimenticare. Propongo di far passare i carciofi e qualcuno inizia a sfogliarli e a mangiarne i tepali (una donna, Carolin credo): dimenticare, un sogno è dimenticare, restare finalmente senza memoria.  Vi chiedo se volete farne una frittata, perchè? (provo a dissuadere l’ospite: distrarre con l’astrazione e la nostalgia).  Possiamo non farla, e decidiamo di  farla -il carciofo spinoso è anche simbolo del lavoro post edenico- perché da sempre le donne nel loro lavoro ripetitivo e continuo, anidentitario, lavoro di cura , hanno trovato in questo continuun di lavoro, apparentemente improduttivo, (improduttivo?) la possibilità di perdere la memoria, di cancellare il dolore, di rimuovere le distanze, di ridurle accomunando, rendendo col fare,  gli altri più vicini, più simili, uguali, nel perdere almeno parzialmente la memoria di se, il confine con gli altri…dimenticare lavorando con gli altri, per le altre persone, prendendosene cura, dimenticando di se, i dolori, i confini, accogliendo,  amando….......l’odore del fritto fa dimenticare spero, almeno per un po’, il motivo del convenire.

……..( pagare anche per dimenticarsi) …….     ( anche di pagare)…( anche di esistere)   …dimenticare…..

* Fiabe 

Una principessa che non voleva crescere preferì addormentarsi e continuare a dormire piuttosto che vivere e fare tutti i giorni le stesse cose. 
Sognò di non avere un corpo di cui occuparsi: con tutte quelle inutili ossa, ed angoli e fatiche di ogni genere per conservarlo.
 Sognò per tutto il tempo di essere una sfera di luce, leggera come le lucciole nelle notti di maggio.
 Dormì. 

Un imperatore decise di bandire un concorso per il “vestito più bello”. Dopo aver a lungo parlato con una sarta filosofo si convinse che il corpo nudo era di sicuro l'abito più bello. In molti credettero che era stato truffato.

*( qui ora, come sopra, subito autoschizofrenogeno documento)         : corpus


Risposta di Mattia Pellegrini:

1.53
Leggo e rileggo il testo di Giuliano.
Comprendo oggi, in maniera ancor più chiara, la forza della sua parola.Forse perché questa volta ho partecipato alla performance da lui descritta e qui vi trovo la carica che mi fa tornare indietro e riflettere su questioni che in quel momento non ero riuscito a vivere, a captare.
E' sorprendente riconoscere senza alcun dubbio quello di cui Giuliano già parlava in “Restaurare una performance” : l'utilizzo del testo scritto per documentare una performance.
Come scrive Alessandra nella sua tesi parlando di Giuliano “Fotografie e video registrano per sempre un momento effimero, ma non hanno la capacità di farcelo rivivere, soprattutto quando di questo evento non siamo stati testimoni diretti e non possiamo perciò far ricorso alla memoria per completare la parzialità delle immagini. E' il testo, secondo Giuliano Nannipieri, lo strumento privilegiato per la ripetizione nel tempo di un'azione già consumata. Il testo è capace di oggettivizzare il gesto senza ridurlo ad un prodotto commercializzabile, conservando così gli aspetti fondamentali dell'happening: la sua carica dirompente e l'attacco alle nozioni tradizionali dell'arte, la sua processualità e la partecipazione attiva dello spettatore, divenuto lettore ”

La grande tensione della serata dovuta a molti fattori..la prima uscita “ufficiale” del team museo in esilio davanti a Dora,Carolyn e Cesare....il non poter comunicare in inglese....lo scherzetto (o forse no) dell'introduzione alla performance con la lettura indecisa e quasi impercettibile delle fiabe da parte di Giuliano (ad oggi credo che volesse rompere più che una certa “aura” della situazione, il ritmo,la processualità dell'azione, creando uno “spaesamento” reale) tutto questo non mi aveva fatto cogliere le riflessioni che il testo oggi mi pone davanti;
i carciofi come fiori di loto mangiati dai compagni di Ulisse per dimenticare la condizione d'esilio; uomini esiliati, appunto, che non riescono a tornare a casa;
i pidocchi, toccarsi come eliminazione dell'aura umana, il tornare all'antropologia del contatto, oggi ridefinito dai medium tecnologici;
ed infine la frittata: l'oggettualizzazione dell'opera che diventa non commerciabile, ma commestibile.
Digerire per comprendere”.

Attraverso il testo rivivo un esperienza passata in maniera profonda e significante (impossibile viverla attraverso il video o le foto perché ormai,come generazione 2.0, siamo esseri passivi bombardati dalla comunicazione video.consumistica)

Appena spedita la sua mail Giuliano mi ha chiamato ed abbiamo parlato di quanto l'arte contemporanea sia insignificante se non carica di riflessioni sociali,di quanto sia inutile se non crei pensieri che permettano una rivoluzione etica della nostra società...
credo che questo progetto e gli interrogativi dello stesso Giuliano pongono questioni profonde, creano dubbi e perplessità nelle nostre menti, caratteristiche essenziali dell'arte e della cultura contemporanea in un mondo dove oggi più che mai c'è bisogno di riflettere,pensare,lottare,agire.