Museo dell'Arte Contemporanea Italiana in Esilio

MUSEO DELL'ARTE CONTEMPORANEA ITALIANA IN ESILIO

Il progetto ideato da Cesare Pietroiusti, in collaborazione con Alessandra Meo, Mattia Pellegrini e Davide Ricco, intende raccogliere su tutto il territorio italiano opere realizzate da personalità singole o collettive che svolgono attività creative sorprendenti, eterodosse, fuori dai circuiti della comunicazione mediatica.
Il Museo non avrà una sede fisica fissa: concepito come entità nomade sarà esiliato presso istituzioni museali e associazioni culturali estere.

venerdì 4 novembre 2011

Andrea Lanini: idee per Venezia


(Primavera 2011)
Cari Amici del Museo in Esilio,
Riassumo qualche idea per Venezia, sulle quali possiamo riflettere per sceglierne una o più di una. Non nascondo che le prime tre mi stanno più simpatiche. E’ anche probabile che ne venga fuori qualche altra col tempo o con un eventuale sopralluogo.

1.Tenda da strada.

E’ composta da bustine di plastica trasparente che, collegate l’una all’altra, formano lunghe strisce appese ad una sbarra orizzontale. In ciascuna bustina è contenuto un piccolo reperto, raccolto nel corso di una passeggiata, che può esser anche fissata in un particolare giorno dell’anno.
In un certo senso, attraversare quella tenda, magari appesa in un sottoportego, vuol dire ripercorrere in un istante quella passeggiata.
(Dentro ciascuna bustina può essere contenuto un cerino, una piuma di piccione, una goccia d’acqua di un canale, un coriandolo, una moneta, uno scontrino ecc. ecc.)
Si possono immaginare varianti suggestive, impiegando magari frammenti di pagine di un libro (Morte a Venezia) o reperti raccolti in luoghi marginali (Marghera, il Ghetto, un campo nomadi...)

2.Città di esiliati.

E’ realizzata con alcune torri alte e sottili, fatte di cartone e pagine di scrittori esiliati ( Dante, Ovidio, Salman Rushdie ecc.) le quali formano una sorta di città verticale che può nascere dovunque.
Le torri sono sostenute da un’ anima di ferro che parte da una base anch’essa di ferro, presumibilmente quadrata o rettangolare.

3.Accampamento.

Particolarmente legato all’idea dell’esilio, è costituito da alcune ( quattro, cinque o sei...) tende da campeggio a igloo, autoportanti e come tali senza picchetti (che danneggerebbero il pavimento), disposte in un campo veneziano, meglio se periferico o comunque un po’ nascosto, a formare un accampamento di esiliati. Ciascuna tenda contiene un grande specchio o frammento di specchio, preferibilmente proveniente da una vetreria locale, per suggerire l’idea che ad essere esiliate sono le immagini.
Se associato alla tenda da strada l’accampamento si collocherebbe sotto il segno verbale delle tende veneziane. Tende che attendono i visitatori e che tendono a sorprenderli. Si potrebbe pensare anche a collocare le tende in un rio. Una interessante variante, più vicina come ispirazione ad un’idea di arte come reportage e come sondaggio, non priva di una sua graffiante inclinazione alla protesta sociale, può essere quella dell’accampamento di reperti. La definizione finale dell’accampamento/camping si avrebbe allora dopo la ricerca e il raccoglimento, non solo mistico e psicologico, di oggetti abbandonati in una qualche zona industriale e periferica (Mestre, Marghera ecc.) magari con la documentazione video e/o fotografica o anche scritta delle varie fasi della operazione.

4.Lampadario mostruoso.

Un lampadario di Murano, colorato, ma sviluppato in forme asimmetriche e mostruose, appeso in una calle possibilmente marginale. Ha il pregio di essere particolarmente suggestivo, di notte, e di poter essere visto magari anche da un canale, passando con la barca. Ha il difetto di richiedere una istallazione più complessa, una alimentazione elettrica, un lavoro con i produttori del vetro ecc. Non ultima l’incidenza dei costi.

5.Barca
Si tratterebbe di recuperare e ingrandire la barca di cartone che ho esposto al Ponte Milvio, nel settembre del 2010, adattandola al contesto. Ha il pregio di integrarsi perfettamente nella rete acquatica veneziana, soprattutto in uno “squero”( ce n’è uno famoso vicino alle “Zattere”), ma ha il difetto di esistere già e quindi, almeno per me, di essere un po’ meno stimolante.
Inoltre è pesante e richiederebbe un adeguato sistema di trasporto, che sarebbe comunque un po’ facilitato dal fatto che la barca è divisa in pezzi .
Un altro problema è dato dal fatto che, essendo in cartone, non ama la pioggia.

6.Pozzo Divino

Un finto pozzo in cartone da piazzare in un piccolo campo dove non ce n’è già uno vero ( dove ve ne fosse già uno occorrerebbe calibrare le distanze ). All’interno un bacino in metallo leggero è destinato a contenere vino o spriz da distribuire per l’occasione in appositi bicchierini di carta. Finito il vino, sul fondo del bacile può apparire una scritta. L’idea della trasformazione dell’acqua in vino, alla quale il pozzo potrebbe alludere, coinvolgerebbe una delle più belle opere della pittura veneziana del rinascimento : le Nozze di Cana di Paolo Veronese.

(Il pozzo veneziano è una struttura complessa che implicava una spesa notevole e come tale veniva considerata come un dono assai apprezzabile, fatto alla città dalle famiglie aristocratiche che potevano permetterselo. Si trattava di uno scavo ampio e profondo anche 5 o 6 metri, tale da richiedere qualche volta l’innalzamento della pavimentazione, in ogni caso in campi e cortili piuttosto grandi. Lo scavo veniva rivestito di argilla per l’impermeabilizzazione e riempito di sabbia per il filtraggio di acqua piovana che era la sola fonte di approvvigionamento. La vera e propria canna, una sorta di grande tubo cilindrico che sfociava superiormente nella vera da pozzo, aveva al fondo una pietra d’istria dove finiva l’acqua filtrata dalla sabbia e dai particolari mattoni ( pozzali) forati, impiegati nella costruzione della canna stessa. Simmetricamente rispetto alla vera da pozzo erano situati due o quattro tombini sotto i quali dei condotti a campana (pilelle) servivano a convogliare l’acqua piovana nella sabbia di filtraggio.)

SIMBOLOGIE

Presso Glastonbury nel Sommerset, si trova un antico pozzo detto del Calice le cui acque sembrano trasmettere il suono del battito di un cuore. Tra l’altro, la presenza di sostanze ferrose rendono le acque piuttosto rosse, così da richiamare, secondo una antica leggenda, il Calice del santo Graal che si ritiene fosse custodito proprio là dentro, a ricordare il calice dell’ultima cena, dopo essere stato portato in Inghilterra da Giuseppe di Arimatea
Il pozzo del Calice è anche ricollegato da molti ad una divina simbologia femminile che sarebbe ripresa nel disegno presente nel coperchio, progettato dall’archeologo Bligh Bond nell’ottocento. Questi utilizzò il disegno simbolico del Vesica Pisces, caratterizzato da due cerchi che si intersecano. Più in generale in molte culture il pozzo rinvia alla presenza di una divinità femminile alla quale alluderebbe sia la presenza dell’acqua che la profondità.
Il pozzo è comunque presente in tutte le più importanti narrazioni bibliche, come nel caso della parabola di Cristo e la Samaritana. Qui il pozzo diviene simbolo della grazia di Dio che scaturisce in continuazione, come Gesù suggerisce alla donna di Samaria, ma anche di riconciliazione perché Giudei e Samaritani, per antichissime vicende storiche si consideravano reciprocamente popoli segnati dal male. In questa parabola Cristo mostra anche di essere profeta poiché conosce la vita personale della donna ( Hai avuto cinque uomini...ma nessuno è divenuto tuo marito...) alludendo quindi all’idea tradizionale del “pozzo di scienza”. E’ insolito che Cristo si intrattenga a parlare con una donna perché le donne non avevano un normale diritto di parola.
(Gesù attraversa la Samaria per andare dalla Galilea a Gerusalemme. Non dovrebbe, secondo il pensiero dei suoi apostoli, avere contatti con i Samaritani che gli ebrei considerano un popolo stolto perché sono dei sanguemisti, da nove secoli non pregano a Gerusalemme e venerano un loro Dio sulla montagna detta Garizim, cioè fanno cose assolutamente disdicevoli. Il pozzo al quale inaspettatamente Gesù si ferma a parlare con la donna di Samaria esiste ancora ed è profondo 32 metri.
Viene considerato il pozzo che Giacobbe donò a Giuseppe e perciò è detto pozzo di Giacobbe. Gesù chiede alla Samaritana : “ Dammi da bere” e la donna di rimando gli domanda perché mai un ebreo rivolga la parola ad una samaritana. “ Se tu sapessi chi ti chiede dell’acqua, tu gliel’avresti data e lui di avrebbe restituito dell’acqua viva”. Gesù aggiunge anche che chiunque beva quell’acqua avrà ancora sete ma che se beve l’acqua che Lui gli dà non avrà mai più sete. La donna gli chiede se non sia più grande di Giacobbe che donò proprio quel pozzo e allora Gesù la incoraggia a chiamare suo marito. Quando la donna rivela di non avere marito Gesù mostra di conoscere che infatti egli ha avuto cinque uomini e non ne ha sposato nessuno. La donna comprende che Egli ha capacità profetiche e sospetta che sia il Messia. Gesù conferma.)

(Ma nel vecchio testamento Mosè si ferma al pozzo nella terra dei Madianiti e qui vede le sette figlie di Jethro. Le difende da alcuni pastori che le aggrediscono e viene portato dal re di Madian che gli darà in sposa Sephora, dalla quale avrà due figli.)

Naturalmente il pozzo è anche simbolo di conoscenza e, nell’ambito della psicologia individuale esso si riferisce all’inconscio e allo sprofondamento nella propria coscienza, evocando l’idea del crogiuolo nel quale ricordi, paure, desideri, si mescolano incessantemente.
Il pozzo è vita, per il fatto di dare l’acqua a tutti coloro che ne abbiano bisogno, ma anche morte per la sua profondità nel sottosuolo, dove i morti riposano in una oscurità misteriosa. In questa seconda accezione il pozzo si trova nella simbologia araba ad evocare la Porta dell’Inferno mentre in quella tedesca esso è considerato piuttosto come uno specchio d’acqua e quindi legato alla facoltà di predire il futuro.
Collegandosi alle radici profonde dell’uomo e della comunità il pozzo tiene insieme gli elementi della terra, dell’acqua e dell’aria e diviene, anche per la sua importanza funzionale, punto di riferimento per la comunità e dunque luogo di incontro e di conversazione. Ma è anche la sede delle divinità custodi del luogo e quindi luogo dove è possibile incontrare Dio.

LOGICHE DI SIGNIFICAZIONE

In tutta la vicenda del pozzo per Venezia e dei panni stesi, intesa come dislocazione nella realtà del sestiere, si afferma una curiosa dinamica dei ricordi simbolici che sembra stranamente riferirsi ad una fisica. Oggetti e significazioni si organizzano secondo movimenti che dipendono dal nostro umano dibatterci dentro la percezione e la conoscenza della realtà e della storia.
La quadratura, implicita in una pratica della misurazione che include il riferimento ai punti cardinali, si intreccia con la complessità dell’ottagono e con la sua relazione con l’infinito che i punti cardinali stessi suggeriscono in quanto fissati sul cerchio dell’orizzonte. Dall’ottagono, secondo un meccanismo che è appunto particolare di una fisica simbolica, si passa al cerchio e questa procedura simboleggia il legame progressivo tra quadrato e cerchio come metafora di una dialettica struggente tra misurazione e infinito incommensurabile.
Ritrovare per questa via la rete di forme e significati che si stende verso una sorta di infinito simbolico prova che in qualche modo nella realtà contemporanea di una immersione nel contesto esperibile si realizzano procedure e rimandi descrivibili e forse inattesi. Il pozzo, ad esempio, propone una centralità fisica che diventa anche centralità simbolica nel momento in cui tutta la materia immaginata si riferisce alla voragine fatale e profonda del vino e del sangue.
Il pozzo diventa anche il centro della antica festa veneziana, che si teneva all’aperto, in una città che è interamente aperta alla natura, come dimostrano le cene di Veronese e mentre queste cene si squadernano una dopo l’altra, da quella di Gregorio Magno a quella di Simeone, fino a quella famosa in casa di Levi, si pone come centro di tutte le cene quella delle nozze di Cana e fa perno sul pozzo, nel quale l’acqua si trasforma in vino.
Se da subito ho pensato che nel pozzo vi fosse del vino è perché Venezia è la città del giro dei bar e probabilmente qui ho semplicemente toccato la chiave di una discendenza che è quella della moderna euforia enologica in quanto erede del vino veronesiano e tizianesco.

La festa.

La distribuzione del vino, oltre ad evocare la riconciliazione del popolo attraverso il sangue di Cristo, rimanda alle feste veneziane del rinascimento che Veronese ha più volte rappresentato e che già di per sé assumevano un valore insieme cristologico e civile nel nome proprio del popolo veneziano. E’ noto infatti che la tradizione veneziana rafforzava il popolo nella convinzione di essere in qualche modo autonomo dalla chiesa di Roma e di fondare su una base comune la propria fede religiosa e i principi civili repubblicani sui quali si fondava il governo della città.
Non è un caso se Veronese, oltre ad aver trasformato in feste cittadine le più famose cene evangeliche, ha anche rappresentato in forma modernissima le grandi virtù e i valori dello spirito veneziano, dipingendo figure femminili in vesti del loro tempo come simboli della Prosperità o della Concordia, della Dialettica o della Fede o ancora della stessa città di Venezia, rasentando in straordinario anticipo certe allegorie civili dell’età dell’illuminismo e del neoclassicismo.
Realizzato nel 1563, il dipinto di Paolo Veronese, dedicato alle Nozze di Cana, è concepito proprio come una festa veneziana, tanto che alcuni studiosi lo pensano ambientato in un luogo classico simile alla residenza di Pietro Aretino. La cosa potrebbe essere confermata dalla figura del suonatore di viola d’amore posto al centro della scena e in primo piano, il cui ginocchio è una evidente citazione del Mosè di Michelangelo, poiché è nota la polemica che si sviluppò tra l’Aretino e il grande artista fiorentino. Altri ritengono che quel suonatore di viola impersonasse lo stesso Veronese, al quale si contrappone il collega in abito rosso che, a sua volta, rappresenterebbe Tiziano. Al tipico rosso tizianesco corrisponderebbe il bianco candido dell’abito di Veronese, in effetti vicino all’idea della luce solare e del biancore del sottinsù di Paolo. L’impianto architettonico, mutuato dal modello bramantesco della Scuola d’Atene, discende in realtà da Palladio con il quale il pittore stava collaborando a San Giorgio maggiore e con il quale aveva già lavorato, fino al 1560, nella villa Barbaro a Maser, Tra l’altro Tintoretto suonerebbe il violino e Bassano il cornetto. Queste sottese allusioni ricordano la Scuola d’Atene di Raffaello, della quale in qualche modo è qui ripresa anche la monumentale ambientazione classica per non dire delle figure vicine alle colonne molto simili ad altre presenti nelle stanze vaticane. Considerata la grande lezione giorgionesca non stupisce neppure l’accostamento che in questo caso Veronese farebbe tra pittura e musica. Ricordiamo tra l’altro che il dipinto, oggi al Louvre, fu sottratto da Napoleone e mai più restituito all’Italia. Sarebbero presenti nel dipinto, Eleonora d’Asburgo, Francesco I di Francia, Maria I di Inghilterra, Solimano il Magnifico, Vittoria Colonna, Carlo V, Marcantonio e Daniele Barbaro, Giulia Gonzaga e Reginald Pole, Triboulet e Mehmet Pascià Sokolovich.
Gli invitati del Veronese sono elegantissimi, spesso abbigliati in modo esotico, ad esempio indossando dei turbanti, e le donne sono mescolate agli uomini. Tutti conversano in modo amabile e animato e quasi non si distinguono dall’insieme neppure Gesù e la Madonna, se non per via della luce che circonda le loro teste.
E’ una impostazione tutta diversa da quella Tintoretto che aveva dipinto lo stesso soggetto due anni prima per la chiesa della Salute, avvolgendolo in una atmosfera decisamente più conventuale, dove le donne sono separate dagli uomini e dove più che conversare i partecipanti sono percorsi da una sorta di comune inquietudine.
Sul lato sinistro è visibile un uomo barbuto vestito con un prezioso abito blu come la cuffia che ha sul capo, mentre mostra al vicino l’uso di una forchetta, strumento allora non molto usato nei banchetti e anzi considerato nel medioevo come una disdicevole raffinatezza.

(Mi rendo conto, leggendo la guida di Venezia, che l’antico mito decadente della morte lenta della città in realtà non muore mai. Legato probabilmente in profondità all’idea di una città assediata, aggredita dal lento consumo dell’acqua e del mare, esso si è oggi incarnato in termini modernamente chiassosi nel fenomeno debordante del turismo e nel parallelo e meno chiassoso fenomeno della crisi demografica. In questa prospettiva nuova dell’antica morte a Venezia, le tende da campeggio acquistano il senso di un moderno assedio barbarico e chissà di quali indicibili oggetti potrebbero essere piene. Non è escluso che l’apparizione di questi oggetti sia accompagnata dalla musica di Benjamin Britten o di Mahler)
[Andrea Lanini]


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