Ricevo il vostro materiale, come al solito leggo male, ovvero leggo, come leggono credo non coloro che sono cresciuti in famiglie alfabetizzate e colte, ma da sottoproletario (e banalizzo) ovvero con l’urgenza di trovare qualcosa di utile, la frase, l’idea che mi curi, mi aiuti- non ricordo d’aver mai letto un testo con disinteressata curiosità, con l’apertura all’altro (no), ma sempre con l’urgenza di travisare il testo e trovarvi quello che mi occorreva. Così devo dire che non mi è mai particolarmente interessato che ci sia fedeltà, corrispondenza fra quel che provo a dire e ciò che viene compreso: anzi è interessante credo osservare la distanza fra ciò che pensiamo di dire o fare e ciò che arriva agli altri, come ne facciano uso. La tesi di laurea del 2009 è nata fra le altre anche dall’urgenza di mostrare come fossi stato “tradotto” da altri in internet, come ricostruito, provando a capire le ragioni di tali ricostruzioni, perchè ogni ricostruzione o proposta nasconde appunto criteri, propagandistici anzi pubblicitari cioè strategici. Nel testo che mi avete inviato, nella sezione che a me fa riferimento, appare una citazione da internet dalla quale sembra evidente che io sostenga la gratuità delle parole; è evidente invece che la curatrice d’allora avesse la necessità di semplificare, (credo che il rischio più grosso sia la semplificazione ed è ciò che vorrei anche voi valutaste perché penso che proprio la semplificazione sia una delle pratiche sociali in corso più attive e pericolose). L’intento curatoriale piega sovente l’opera e l’artista alle proprie esigenze, così in quel testo sul restauro della performance, lei che era interessata all’idea di restauro non colse il senso o decise piuttosto di non prendere le parti di un discorso che proponeva la progressiva feticizzazione della parola e che faceva riferimento al sistema dell’informazione come sistema banalmente economico. Come potrei altrimenti parlare del “pagare per farsi ascoltare”, è ovvio che le parole abbiano un costo. Sottopongo alla vostra attenzione l’idea che negli anni settanta attraversò la critica, quella cioè di perdere il potere di selezione e porsi piuttosto nell’ottica dell’archivio ovvero della raccolta delle esperienze alterandole solo nella misura del raccoglierle (perché comunque secondo il principio di indeterminatezza di Eisemberg sembra impossibile non essere coinvolti in ciò che si osserva, non mutandolo, non alterandolo ) Quello di Carla Lonzi è l’esempio di un lavoro che lascia parlare soprattutto gli artisti e da quel suo non voler invadere, non imporsi Lonzi passò in seguito al lavoro sull’autocoscienza femminista, a parlare di se stessa.
Questa italiana mi sembra una sociètà fortemente egoica ovvero una società in cui i processi collettivi di semplificazione banalizzano alla coscienza i desideri profondi in percorsi di omologazione. Il profondo, l’inconscio è tradotto e semplificato per, attraverso un io che omologa le pulsioni, che offre spazi egoici convenzionali di sublimazione; penso alla distanza per noi tragica che c’è fra Pasolini e Saviano, all’offerta che propone il sistema dell’arte, ai percorsi che si devono intraprendere per diventare prodotto altamente valutato e vendibile. In questo sistema di filtraggio, metterei anche i social network, faceBook, come anche (a proposito del contesto) i siti più conclamatamente a pagamento sui quali i desideranti /artisti possono collocare le proprie opere e loro stessi. Si paga per essere ascoltati e nel percorso intrapreso si finisce per non dire: lo spessore egoico è tale da intrappolare senza scampo il fondo della comunicazione, da annularne il portato comunicativo a tutto vantaggio del sistema di semplificazione.( Ecco vi provoco : quanto semplificherete, qual è il portato semplificante del progetto?E’ veramente importante che museo in esilio faccia riferimento a degli “artisti” o la sua sensatezza è già nei propositi, oltre il reale coinvolgimento dei soggetti di cui parlate, mi sembra che la forza del costrutto non implichi la necessaria presenza degli esiliati, non ne è sufficiente la presenza “ideale” al di là del loro portato comunicativo? ) Questo spesso, ingolfato io collettivo che si vale appunto di pratiche e dinamiche fortemente convenzionanti, di filtri che pongono pedaggi, pagamenti spesso rimossi, alla comunicazione interpersonale e intrapersonale mi offre una lettura linguistico ludica dell’esilio: l’io indagato, quello da voi cercato, che appare certo disadattato, è esile, è appunto un io esile , un esil io che non si è trovato, per una serie di vicende nella condizione di attivare o assumere come propri i percorsi di mediazione offerti dai modi socialmente condivisi di rimuovere e sublimare; è dunque questo io ESil, ovvero molto più sensibile e permeabile alle urgenze dell’es, (più trasparente ?); una definizione questa che accomuna, e che qui vuole vedere come proposito l’elisione spero del concetto di patologia a tutto vantaggio di una ricerca di consapevolezza che rende visibile e accoglie ogni percorso.
Il mio ESil io strattonato dai sensi di colpa ( più soggetto anche alle tempeste superegoiche) sente la vostra vicinanza, fatica a scrivere, pensa a quanto si è agitato perché fosse visibile, esponibile il suo percorso, perché a tutti i bisogni comunicativi, a chiunque avesse urgenze comunicative, fosse garantito di reaificarle all’universo della comunicazione (occupando musei, strade, luoghi pubblici senza permesso..parassitando nei luoghi preposti alle sposizioni ) senza attraversare, ma costeggiando il mondo delle relazioni commerciali e di vendita dell’universo capitale. Con gli anni ho visto trionfare l’opposto: internet, i cellulari, prendere, offrire un percorso ancora intimamente a pagamento, con la consapevolezza rimossa di dover pagare anche per dire ciao, altro che manifestare grandi percorsi, piuttosto capillarizzarsi la procedura di selezione e rendere costante il pagamento delle proprie manifestazioni comunicative ; così ho deciso di mostrare, svelare quanto più possibile questa dinamica ormai strutturante le relazioni, i rapporti : “pagare per essere ascoltati “ per esistere. Il pagamento di pubblicità che manifestano lavori apparentemente fuori contesto, è lavoro esso stesso, anzi è proprio un tale esile reingresso nel sistema- pagare per esistere- a svelarne le dinamiche, riconducendo il lavoro al pagamento medesimo (ci si apre così alla generalizzazione dell’idea del corrompere e dell’ attivare pratiche di prostituzione)
Forse, giocando ancora con le parole, avere una presenza da esil iato nel sistema è interporre uno spazio sottile, essere e trovare un’area interstiziale, che renda visibile e faccia “trasparire” il fondo………un fondo: fare mercato dei bisogni comunicativi, di contatto.
Allora torno ai pidocchi,( è questa del togliere pidocchi una delle forme primordiali di contatto, di comunicazione) torno all’idea di andarli a comprare in un campo nomadi, o per paradosso in Libia o Marocco- comprare la possibilità di toglierli uno ad uno ( pagandoli un tot cadauno ad esempio 10 euro per un pidocchio) toglierli dalla testa di un vecchio, o di un adolescente e poi innestarli, trasferirli sulla propria, sulla mia e così aprire ad altri contagi in contesti inediti, espositivi come quelli che mi avete proposto. Fare mercato di pidocchi e delle eventuali modalità di convivenza o eliminazione. Un teatro dei pidocchi ad evocare in ribaltamento una serie di pratiche commerciali, comprare l’incomprabile ad evocare la corruzione del comunicare. Certo il non farsi prevedibili facendo scivolare un contesto sull’altro mi sembra una pratica utile nel non incorrere nelle semplificazioni suddette, così da “cesso d’ esistere” al “teatro dei pidocchi” fino all’ipotesi di me, .ESil IO al guinzaglio di Cesare, ( che restano comunque virtuosamente lavori) mi sembrerebbe ad esempio interessante passare a parlare in modo prospettico, attraverso la mia esperienza, di scuola pubblica Italiana, in un contesto non italiano ma spagnolo, dunque in esilio parlare di come la scuola sia stata massacrata, di come la pratico, utilizzando una spazio inedito non previsto come la Biennale, per porre un problema apparentemente fuori contesto: avrei un'altra occasione pubblica per parlarne? e non è forse più “ascoltabile” ciò che viene decontestualizzato ? (con un criterio analogo ho usato un contesto istituzionale come quello dell’università per ridefinire in tesi i miei rapporti con il contesto arte) .Lo sfalsamento di ruolo rispetto al contesto, accresce le portata comunicativa mostrando i limiti delle attuali tassonomie sociali e relazionali. …certo pagherei per farmi ascoltare coloro che venissero ad esempio ad un incontro o ad seminario…….. è ben strano che gli studenti non vengano pagati per studiare o formarsi, tutti gli studenti non credete?
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