8 aprile 2011
Dopo una lunga discussione e l’ennesima dichiarazione di abbandono, la sera di giovedì 7 aprile non ce la faccio a pensare diversamente e decido di non venire a Roma ( quella sera ho pensato che non sarei proprio venuto) - optando piuttosto per un intervento telefonico- (quello del cellulare in bagno, posato su un letto di monete nella vasca, con ingresso individuale e racconto di fiabe previo pagamento all’ascoltatore- intervento che ho raccontato, esposto, accennandolo come possibilità, come corpus, durante la performance)- sono infatti troppo stanco per ipotizzare una mia partenza, ho gli occhi gonfi : non dormo quasi per l’intera notte. Venerdì mattina ricevo la telefonata di Betti: :per strada ha trovato un biglietto ferroviario usato, la cui destinazione, in data primo aprile, è Roma Termini – un segno indirizzato, volto al partire.
Dopo la scuola, nel primo pomeriggio saliamo sul treno.(le minacce di abbandono sono parzialmente rientrate)
Scendiamo a Trastevere, arriviamo all’Ara Pacis dopo varie telefonate; ci siete: Mattia, Alessandra e Davide ; sembra che Dora (Garcia) abbia proposto di mettere il carrello di Delle Chiaie dentro una teca di vetro (alla biennale) “che palle!” ho un vortice, già avevo preconizzato l’uso della teca, in termini anche metaforici, nella prima mail a voi indirizzata ma adesso eccola qui “bell’eppronta” . Certo, è evidente, il carrello è troppo “contaminante”, si pone così il problema dell’oggettualizzazione e della ridefinizione dell’aura. E’ chiaramente la cornice a fare il quadro: un bel parallelepipedo anche se di vetro come del resto un rettangolo, da sempre hanno risolto e risolvono molti problemi in arte, ed in fondo anche qui penso “la cornice”, quella del museo è l’opera, questo museo in esilio, e noi poveri nienti, al massimo opere, crocefissi da esporre. La componente auratica e narcisistica di Fausto è stemperata nella democraticità della proposta, non c’è un pubblico socialmente eletto, l’opera è rivolta a tutti, la lotta con l’enorme teca dell’Ara è evidente; questo doppio- narciso manifesta la sua forza nella costanza della proposta, nel coraggio della costanza, nell’essere continuamente in gioco : genius loci. Io parlo di bagni in laguna, e lui mi suggerisce di indicare degli orari. Penso di chiedere una teca piena d’acqua in cui far bagni- già l’ho proposto alla fondazione biennale, circa una ventina di anni fa; no! in realtà non voglio teche, non ne voglio. Avrei voglia di tornare a casa.
Invece arriviamo allo studio di Cesare. Qui, Matarrese col suo tono litanico, sembra catechizzare Dora, parla e parla con fare ipnotico: certo si è autosospeso dalla produzione di opere materiali ma sembra assolutamente intento a conservare memoria di se, del suo rifuto, a tramandarla, intento a costruire il suo monumento teorico, mnestico, auratico- Penso all’arte contemporanea, non solo italiana e vedo un’infinità di opere che mi sembrano realizzate perfettamente per stare, essere collocate, perfettamente, in ipermercati, magari alcune al reparto elettrodomestici, altre in quello mobilio, altre ancora, grandi gigantografie pronte per qualsiasi spazio; è vero anche l’arte rinascimentale precipuamente aveva come spazi chiese e palazzi e noi ora abbiamo i non loughi, gli ipermercati, tuttavia quando penso a queste opere (e potrei fare esempi) e le vedo appunto ben collocate come attrattori e distrattori in tali spazi, mi sento triste, mi paiono orribili. Tuttavia anche essere votati a se stessi e non soltanto per denaro mi sembra una tristezza. Ma cosa ci faccio io ora qui? Mi faccio tristezza, anch’io. Cesare sembra in lotta con gli angoli del proprio corpo ed ha trovato delle soluzioni abbiglianti per ridurli a curve, sembra di gomma: mi dice che la madre si lamentava che in lui fossero troppo evidenti le ossa- mistero e potere della madre, le ha smussate. Giù a comprare la Pizza parliamo di Beecroft, di come forse i primi lavori, per me solo il primo, quello nello studio di Inga Pin, avessero un senso, ora sembrano avere quello di animazioni per gli spazi lingerie degli ipermercati, appunto. Di Cattelan , Cesare dice che è uno intelligente, certo anche lui è pronto al rifiuto (così almeno ha dichiarato su Repubblica) ma che tedio!, che noia! Fino ad ora ha lavorato e lavora per essere un marchio, per essere un “ brand”, detesto questa impostazione, questo identitarismo a tutti i costi, questa, scusate, fallicità ed il connesso senso dell’umorismo, anzi della goliardia, dello scherzetto da maschi, il gusto per la boutade.
Di nuovo su : Darsi, il maltese, apre al “può darsi” (è una cifra sensata), al darsi alla fuga ( da me proposto) e al darsi malati, suggerito da Cesare. Vorrei provare a finire ed andare a letto, a riposarmi; operare ed accennare, non essere invasivo, tentare di non esserlo, lavorare per tentativi, fare e non fare, incerto, senza creare distanza, anzi provando a ridurla ad allentare i confini, senza pretese, in modo anaeroico, non auratico. Apro il rubinetto della vasca e torno dopo poco a chiuderlo. Arrivano le olive e mi piacciono, O-LIVE, si è vitale e mi distraggo in parte dalla stanchezza. Propongo un lavoro da maestra e racconto, accenno cosa avrei potuto fare, dimesso e falsamente dimesso, dimezzo, riduco il racconto, il corpus:” nella vasca piena d’acqua su un letto di monete, il corpo avrebbe evocato un periodo ed un fare eroico ( anche per questo ho preferito ridurla, questa performance a corpus, a racconto, ad accenno) da qui avrei telefonato ad ognuno che entrasse, leggendo due favole ( che trascrivo) lasciando ad ogni incontro la disponibiltà a mutarsi nel farsi della relazione. Ricordo come telefoni e computer avviino ad una vendita dell’attenzione: pagare appunto per esistere, per essere ascoltati o letti. Leggo distrattamente le fiabe e consegno ai presenti l’equivalente in centesimi per un ascolto al cellulare o al computer , le fiabe sono le stesse che avrei usato anche nella performance a distanza sopra citata. Comincio a distribuire del materiale:”questo lavoro ha sette anni, è un lavoro didattico che ho proposto a scuola per sdrammatizzare un problema”. Nei piattini che abbiamo preso in cucina metto della farina, mettiamo dello zucchero ed acqua, cominciamo a mischiare a formare della pastella, della pasta plasmabile che viene aggiustata dai vari piccoli gruppi. Dovremmo fare delle palline piccolissime, delle piccole sculture, ruotandole sotto le dita, ecco dovrebbero essere delle uova. Infatti i bambini avevano paura del contagio, dovremmo allora fare delle uova di pidocchio: il senso era esorcizzare il contagio e ridare ai pidocchi, alle loro uova, la funzione che avevano avuto in origine, quella cioè di sollecitare l’intrapresa della cura reciproca. Tornare alle origini antropologiche della cura. Invito ad attaccare le uova virtuose ad un compagno e successivamente a toglierle, direttamente mangiandole, Chiedo inoltre che sia pagato ogni uovo sottratto, che la componente cinica del pagare per l’interazione resti, sia innestata su questa originaria pratica di cura, ( ricerca di attenzione reciproca) “ti pago per attaccarti l’uovo e togliertelo, per avere la tua attenzione nel togliertelo, per darti la mia attenzione, per esistere”. Faccio l’ipotesi dell’acquisto reale delle lendini ma per l’occasione ho preferito lavorare sui “pidocchi dolci” facendo riferimento al mio status sociale di maestra.( evoco la distruzione progressiva del modello di cooperazione fra donne proprio della scuola primaria italiana, distruzione messa in atto dall’attuale governo)
In fondo le differite pratiche di contato con cellulari e computer rinviano a queste più dirette e originarie pratiche d’attenzione. Lavoriamo, ci sono scambi, mangiamo uova, le attacchiamo, le realizziamo, le mangiamo ( la vicinanza della bocca richiama l’antropofagia e la rende attendibile) passano centesimi, evochiamo il mercato, la sua ormai ubiqua ineludibilità. Le piccole sculture vengono mangiate, scompaiono, non c’è niente da vendere che non sia gia stato venduto o comprato, restano solo centesimi ed esperienza di cui forse parlare, lavoro improduttivo anzi dispendioso, il contagio reale è quello indotto dall’uso del denaro. I confini mi sembra.sono allentati e tuttavia io mi sento fuori luogo: sono una maestra non un artista, nella società in cui si paga per essere ascoltati, per aver un po’d’attenzione, l’arte nel mercato mi fa orrore, l’arte del mercato. Si apre interlocutoria l’ultima evocazione : i carciofi ( dimenticatemi perché sono nessuno, un buono a nulla) astrazione – non solo allontanarsi dal potere metamorfico del denaro : mangio l’uovo, realizzazione plastica, e subito freudianamente pago-dono con le feci fatte denaro, la cui plasticità è recuperata dalla natura metamorfica dello stesso. L’esilio non solo vuole porre la distanza dall’arte come oggetto di vendita, dal mercato, l’esiliato che io sono trova patetico, su di se, in primis il desiderio di persistenza nella memoria, vorrebbe emanciparsene. Carciofo: leggo un testo sui fiori commestibili. Ipotizzo che i mangiatori di loto dell’odissea siano in realtà mangiatori di carciofi, di fiori in boccio. La vicinanza formale fra loto e carciofo è assoluta: harsuf è il nome arabo del carciofo- (dico che avrei potuto far galleggiare i carciofi sull’acqua della vasca, floating flowers, evocare praticamente le ninfee di Monet, ma non lo faccio , chiedo di persare a questa possibilità, di ipotizzarla- dare al possibile la natura di virtuosità, di immagine realizzabile –“potete immaginarlo” mi limito a dire - senza ricadere nel potenziale metamorfico del denaro, che in tutto può trasformare il proprio potere anche nelle ninfee di Monet- il virtuoso contro il virtuale- una cosa non fatta, evocata contro le carte di credito e il possesso).
Harsuf è il nome arabo del carciofo, e suf rimanda a sufi a sofia, a saggezza.. Fiore spinoso, fiore della saggezza. I compagni di Ulisse mangiano loto ( pianta della saggezza- quale miglior saggezza dell’oblio-), dimenticano la patria e così anche la condizione d’esilio. Anch’ io voglio dimenticare, e far dimenticare. Propongo di far passare i carciofi e qualcuno inizia a sfogliarli e a mangiarne i tepali (una donna, Carolin credo): dimenticare, un sogno è dimenticare, restare finalmente senza memoria. Vi chiedo se volete farne una frittata, perchè? (provo a dissuadere l’ospite: distrarre con l’astrazione e la nostalgia). Possiamo non farla, e decidiamo di farla -il carciofo spinoso è anche simbolo del lavoro post edenico- perché da sempre le donne nel loro lavoro ripetitivo e continuo, anidentitario, lavoro di cura , hanno trovato in questo continuun di lavoro, apparentemente improduttivo, (improduttivo?) la possibilità di perdere la memoria, di cancellare il dolore, di rimuovere le distanze, di ridurle accomunando, rendendo col fare, gli altri più vicini, più simili, uguali, nel perdere almeno parzialmente la memoria di se, il confine con gli altri…dimenticare lavorando con gli altri, per le altre persone, prendendosene cura, dimenticando di se, i dolori, i confini, accogliendo, amando….......l’odore del fritto fa dimenticare spero, almeno per un po’, il motivo del convenire.
……..( pagare anche per dimenticarsi) ……. ( anche di pagare)…( anche di esistere) …dimenticare…..
* Fiabe
Una principessa che non voleva crescere preferì addormentarsi e continuare a dormire piuttosto che vivere e fare tutti i giorni le stesse cose.
Sognò di non avere un corpo di cui occuparsi: con tutte quelle inutili ossa, ed angoli e fatiche di ogni genere per conservarlo.
Sognò per tutto il tempo di essere una sfera di luce, leggera come le lucciole nelle notti di maggio.
Dormì.
Un imperatore decise di bandire un concorso per il “vestito più bello”. Dopo aver a lungo parlato con una sarta filosofo si convinse che il corpo nudo era di sicuro l'abito più bello. In molti credettero che era stato truffato.
*( qui ora, come sopra, subito autoschizofrenogeno documento) : corpus
Risposta di Mattia Pellegrini:
1.53
Leggo e rileggo il testo di Giuliano.
Comprendo oggi, in maniera ancor più chiara, la forza della sua parola.Forse perché questa volta ho partecipato alla performance da lui descritta e qui vi trovo la carica che mi fa tornare indietro e riflettere su questioni che in quel momento non ero riuscito a vivere, a captare.
E' sorprendente riconoscere senza alcun dubbio quello di cui Giuliano già parlava in “Restaurare una performance” : l'utilizzo del testo scritto per documentare una performance.
Come scrive Alessandra nella sua tesi parlando di Giuliano “Fotografie e video registrano per sempre un momento effimero, ma non hanno la capacità di farcelo rivivere, soprattutto quando di questo evento non siamo stati testimoni diretti e non possiamo perciò far ricorso alla memoria per completare la parzialità delle immagini. E' il testo, secondo Giuliano Nannipieri, lo strumento privilegiato per la ripetizione nel tempo di un'azione già consumata. Il testo è capace di oggettivizzare il gesto senza ridurlo ad un prodotto commercializzabile, conservando così gli aspetti fondamentali dell'happening: la sua carica dirompente e l'attacco alle nozioni tradizionali dell'arte, la sua processualità e la partecipazione attiva dello spettatore, divenuto lettore ”
La grande tensione della serata dovuta a molti fattori..la prima uscita “ufficiale” del team museo in esilio davanti a Dora,Carolyn e Cesare....il non poter comunicare in inglese....lo scherzetto (o forse no) dell'introduzione alla performance con la lettura indecisa e quasi impercettibile delle fiabe da parte di Giuliano (ad oggi credo che volesse rompere più che una certa “aura” della situazione, il ritmo,la processualità dell'azione, creando uno “spaesamento” reale) tutto questo non mi aveva fatto cogliere le riflessioni che il testo oggi mi pone davanti;
i carciofi come fiori di loto mangiati dai compagni di Ulisse per dimenticare la condizione d'esilio; uomini esiliati, appunto, che non riescono a tornare a casa;
i pidocchi, toccarsi come eliminazione dell'aura umana, il tornare all'antropologia del contatto, oggi ridefinito dai medium tecnologici;
ed infine la frittata: l'oggettualizzazione dell'opera che diventa non commerciabile, ma commestibile.
“Digerire per comprendere”.
Attraverso il testo rivivo un esperienza passata in maniera profonda e significante (impossibile viverla attraverso il video o le foto perché ormai,come generazione 2.0, siamo esseri passivi bombardati dalla comunicazione video.consumistica)
Appena spedita la sua mail Giuliano mi ha chiamato ed abbiamo parlato di quanto l'arte contemporanea sia insignificante se non carica di riflessioni sociali,di quanto sia inutile se non crei pensieri che permettano una rivoluzione etica della nostra società...
credo che questo progetto e gli interrogativi dello stesso Giuliano pongono questioni profonde, creano dubbi e perplessità nelle nostre menti, caratteristiche essenziali dell'arte e della cultura contemporanea in un mondo dove oggi più che mai c'è bisogno di riflettere,pensare,lottare,agire.