“Abbiamo bisogno che la vita sia possibile in qualche luogo, dal
momento che è legge dei corpi occupare un posto”. (Maria Zambrano)
“Le pays ou la patrie est partout.” (Vincent Van Gogh)
Esilio, esiliare, esiliato, esulare, esulato, esule. La radice è
comune, dal latino exsilium, “fuori da questo luogo”.
Salvatore Battaglia, nel suo monumentale lavoro sulla lingua
italiana parla chiaro:
“Esilio, sm. 1) Sanzione (che nel mondo antico spesso sostituiva
la pena di morte) consistente nell’allontanamento obbligatorio
dalla propria patria del colpevole di un delitto (comune o
politico) considerato particolarmente grave.
2) Abbandono della propria patria che, senza essere imposto dal
pubblico potere, una persona è però costretta a compiere (pur
essendo per lo più innocente, almeno formalmente) per evitare
gravi pericoli o per altre cause di forza maggiore ( per lo più di
origine politica o anche familiare) o per ragioni etiche o
religiose.”
Dunque l’esiliato è colui che è condannato all’esilio, mandato
in esilio, o costretto all’esilio; bandito, proscritto, confinato,
scacciato, deportato.
E l’esule chi è? Aggettivo e sostantivo ad un tempo, maschile e
femminile ad un tempo, la parola esule racchiude in sé non solo
una passività, ma un’attività. Esule è colui che va in esilio, che
vive in esilio, che va ramingo, errabondo.
Ed è proprio quest’attività, questo sentimento di condizione pura,
dell’essere nudo corpo, pronto a gettarsi fuori, in qualche luogo,
che corre instancabile sul filo della conquista di uno spazio
aperto, paese o patria è ovunque: esilio come condizione, esilio
come scelta, esilio come apertura al campo dell’altro, come
incontro, esilio come luogo di meditazione, occasione di
ri-nascita.
Maria Zambrano, Vincent Van Gogh, due esempi straordinari, lontani
ma vicini. Esule politica l’una, esule errante l’altro. Cosa li
accomuna? “La vera crescita si manifesta così: morire e
resuscitare, sprofondare e rialzarsi”. “Disnascere”, scrive
Zambrano. “Sempre in uno stato di esilio, sempre appeso a un
filo”, scrive Van Gogh. Dis-nascere, una parola chiave coniata da
Maria Zambrano, come primo atto necessario a disfare la nascita:
“l’unica tragedia è l’essere nati”.
Nell’epistolario vangoghiano, come nell’epistolario zambriano si
percepisce il grado zero dell’essere: l’esilio non è castigo, non
è ripiego, non è fuga, al contrario è una aperta dichiarazione di
volontà. Volontà nel vivere per “riconquistare il sentire
originario delle cose, del paesaggio, della gente...” “Vivo e
muoio ogni giorno,” scrive Zambrano, “la povertà, la malattia, la
vecchiaia, la follia, e sempre l’esilio”, scrive Van Gogh.
Esilio come stato. Auto-esilio come scelta di condizione vitale
portata al margine più vicino possibile all’azzeramento. Nel
tempo prima che nello spazio. “Puro esser-ci”1, da cui partire, da
cui disfare la nascita originaria. Sprofondare e rialzarsi. In
questo senso Zambrano e Van Gogh si avvicinano, nella ferma
volontà di dis-nascere. Di ri-nascere.
Esilio attivo, dunque, consapevolmente scelto e giornalmente
praticato. Un esercizio. Un credo. E, anche, un isolamento, un
modo speciale di guardare il mondo.
Un modo speciale di guardare il mondo, è questo sguardo che
interessa al Museo in esilio, “entità itinerante”: artisti e
realtà capaci di guardare alle cose della vita e del mondo in un
altro modo, artisti a margine, artisti nascosti, disturbanti e
disturbati. Artisti esuli o esiliati, da portare in esilio. Auto-
esilio. Self-exile.
Da questa prospettiva potremmo dire che il progetto del “Museo
dell’arte contemporanea in esilio” rovescia dal suo interno un
concetto storico e linguistico per porsi come forma-occasione di
resistenza e di dissidenza.
Exist-resist.
m.g.
settembre 2011
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